Alex Orlowski è uno dei maggiori esperti a livello internazionale di marketing politico e monitoraggio dei social media, impegnato da anni in una campagna di «democratizzazione del web», è stato il primo a svelare “La Bestia”, cioè la strategia che si celava dietro la comunicazione di Matteo Salvini (e che ora utilizzano tanti altri) e il suo lavoro è spesso alla base inchieste, come di Report che ha denunciato le modalità “social” dei partiti della destra italiana, ma anche di alcuni servizi delle Iene, sia sui negazionisti del Covid che sul “guru” di Instagram Mirko Scarcella.
Il 2 dicembre sarà anche uno dei protagonisti de “I Fili dell’Odio”, una produzione indipendente di Tiziana Barillà, Daniele Nalbone e Giulia Polito, con la regia di Valerio Nicolosi, che si è avvalsa della collaborazione di Michele Santoro e andrà in onda sul sito Tpi. L’opera tratta un tema di grande attualità come quello dell’inquinamento dei social e della manipolazione delle notizie.
Ne abbiamo approfittato per intervistarlo, per capire cosa si muove dietro a quello che “scrolliamo” per ore e ore sul nostro cellulare e che spesso influisce sull’opinione di milioni di persone.
Nel trailer di “I Fili dell’Odio” dici: “Da quando entrano in gioco gli smartphone comincia l’odio online”. Come mai questi oggetti sono stati decisivi in questo processo?
Sono stati decisivi nel fomentare l’odio online, così come per sostenere l’attivismo che in alcuni casi è sfociato nelle rivoluzioni nate prima in ambito digitale. Grazie ai social tutti hanno potuto avere un device economico e attraverso una connessione internet un modo di comunicare e pubblicare semplice e diretto. Ma nello stesso tempo, qualunque persona, anche non esperta di questo settore, ha potuto dire la sua e spesso protetta da questa forma di anonimato. Le prime persone che avevano iniziato a utilizzare i social, invece, avevano già una certa capacità tecnica. Il primo che ha avuto grande diffusione è stato Myspace, ma i musicisti erano già abituati a usare i computer per le loro creazioni, oppure i tecnici informatici o i giornalisti con una certa confidenza con la tecnologia. In quei casi, erano delle élite senza nessuna necessità di fomentare odio.
All’inizio si pensava che l’odio online fosse solamente un modo per sfogarsi da parte delle persone, ma da qualche tempo ci siamo accorti che dalle parole spesso si passa ai fatti.
L’odio si è sempre sfogato in maniera violenta. Prima veniva veicolato su carta, oppure attraverso la radio e la tv. Quando inciti all’odio qualsiasi mezzo porta alla fine alla violenza reale. I casi sono innumerevoli, come per esempio quando si annunciano le stragi, da parte dell’Isis o di Al Qaida, oppure come l’estrema destra che aizza quelli che vengono chiamati i “lupi solitari”. Queste persone che passano dalle parole ai fatti sono spinte dalle reti sociali, visto che quasi mai hanno un contatto diretto con la comunità di riferimento, ma con una comunità online e cercano il gesto estremo per farsi sempre più accettare o apprezzare.
Chi è che guadagna, consenso o denaro, fomentando l’odio sul web e sui social?
Direttamente nessuno guadagna con l’odio online, ma si può guadagnare guadagnando consenso. Se non si ha un limite in questa ricerca, ovviamente succede quello che succede. All’origine nasce per la ricerca di un facile consenso politico, facile perché spesso basta sottolineare atteggiamenti negativi dei migranti, dei più poveri, dei diversi o in situazioni drammatiche come per l’emergenza Covid fare leva sulla paura delle persone.
Altro fenomeno inquietante è quello degli shit storm, che dopo il servizio delle Iene sui complottisti del Covid avete sperimentato direttamente. Ma cosa ci guadagna chi organizza questi gruppi?
Questo fenomeno fa sempre parte dell’odio organizzato. Ci sono dei gruppi, su Facebook o in particolare su Telegram, che si organizzano per questo tipo di attacchi. Ci guadagnano prima di tutto l’adrenalina di essere considerati leader di un gruppo, quindi cercano potere. Queste sono persone che spesso hanno pochissimi contatti sociali e vedersi alla testa di un gruppo chiuso e segreto, gli può dare grossa autostima, quella stessa autostima che non hanno nella vita reale.
Per non dimenticare le fake news.
In teoria è un termine semplicistico. Tecnicamente viene definito information disorder, disturbo dell’informazione. A volte si prendono notizie vere ma che poi vengono spiegate male, oppure dove solo alla fine si rivelano la verità o le informazioni utili a capire il concetto. Sappiamo che le persone hanno mediamente una soglia di attenzione molto bassa, non leggono fino alla fine, per cui un titolo fuorviante, il famoso “acchiappa click”, può essere utilizzato per legittimare una notizia falsa. Noto il caso di Tgr Leonardo, che parlò nel 2015 di un virus creato in Cina in laboratorio e poi venne riproposto all’inizio di questa pandemia.
Nelle ultime elezioni americane, invece, hai notato qualcosa di strano nei movimenti sui sui social?
Sì, ci sono state normali azioni di disturbo e diffusione di fake news. Sono arrivate, in particolare, dal candidato Donald Trump che ha fatto leva su diverse notizie false per delegittimare l’avversario Joe Biden e il tutto è poi sfociato nella tesi che il voto fosse stato truccato. Ma non è emersa nessuna prova di questa tesi, neppure tra le fonti repubblicane. C’è da dire che stavolta i democratici erano più preparati e gli stessi social hanno bannato alcune affermazioni di Trump che erano chiaramente fuorvianti per gli utenti.
Tu stesso sei stato minacciato dai gruppi estremisti che operano sul web. Quali minacce hai ricevuto e come vivi questa situazione?
Sono stato inserito in un software per spaventarmi che si chiama “The Antifa hunt” con tanto di foto di una pistola puntata alla testa. Ricevo minacce quotidianamente, poi dipende dalla mia esposizione sui media tradizionali. Alcune minacce sono davvero pesanti e arrivano anche da pregiudicati, quindi gente piuttosto pericolosa. Dicono di volermi sequestrare, di aspettarmi sotto casa, di volermi torturare o uccidere. Tutti gli altri, sono invece “leoni da tastiera”, che dicono cose del tipo: “Ti vedrei bene impiccato in piazza” oppure “ti mettiamo a rastrellare la sabbia sott’acqua”. Chiaramente tengo l’attenzione molto alta per la mia incolumità, visto che un estremista, sia di destra o di sinistra, religioso o calcistico, è pur sempre una persona che ha delle fragilità psicologiche e non si può mai sapere se queste lo porterà davvero a fare un gesto estremo per vendicarsi della condizione sociale che gli crea quel disagio.
Se potessi lanciare un appello sull’uso dei social e del web, a chi ti rivolgeresti?
Alle persone, consiglio sempre di denunciare tempestivamente. Mentre l’appello lo rivolgo alle istituzioni, perché sono loro che dovrebbero salvaguardare sulla sicurezza, anche in abito social o web. Queste tecnologie sono una risorsa economica, culturale e sociale incredibile, hanno fatto del bene a moltissime persone, pensiamo solo a chi è impossibilitato a muoversi e grazie a loro può invece comunicare con il mondo. E poi mi rivolgerei alle forze dell’ordine, che devono adeguarsi a sfide che cambiano giorno dopo giorno. Oggi, purtroppo, hanno pochissime possibilità di intervenire con indagini digitali, visto che prima devono chiedere il via libera da un Pubblico ministero e quando arriva spesso è già tardi. Infatti, sostengo da tempo che la Polizia postale andrebbe integrata alle altre forze dell’ordine tradizionali per avere più risorse e velocità d’azione.
Se siete arivati fino a qui seguiteci anche su Facebook e su Instagram