Colleferro. Ci si passa per forza quando si sale in macchina verso nord e si percorre l’A1. Da Colleferro capisci che sei vicino a Roma, mancano una sessantina di chilometri alla Capitale. Alzi lo sguardo oltre il lunotto e sulla sinistra vedi questo nugolo di ciminiere, serbatoi d’acciaio, immense cattedrali di cemento e di mattoni, le luci che puntellano l’abitato.
Fino al 6 settembre 2020, Colleferro per tutti noi non era altro che uno svincolo sull’Autostrada del Sole. Io la conosco perché i Plakkaggio HC, band massiccia metal-oi! della mia adolescenza da collettivi studenteschi, sono di lì. Al massimo, i seguaci della palla ovale potevano menzionarla in virtù della Colleferro Rugby, una piccola e tosta realtà sportiva. Ma dalla notte del 6 settembre, con l’omicidio rabbioso di Willy Monteiro Duarte, ucciso a calci e pugni dai tristemente noti fratelli Bianchi, Colleferro non è stata più la stessa. Ha subito un’esposizione mediatica immensa, con servizi e banchetti, opinionismo, sciacallaggio e inchieste sul pezzo.
Un’altra rissa ha riportato la lente d’ingrandimento su Colleferro. Nella giornata del 17 aprile 2021, un ragazzo 17enne, Lorenzo, è stato picchiato da due o più coetanei. Risultato: prognosi riservata all’Ospedale San Giovanni di Roma, mandibola fratturata. Si dice che gli aggressori siano arrivati alle sue spalle, lo abbiano colpito più volte fino a quando, ridotto a terra, non gli è stato scagliato un calcio in piena faccia. Si dice che gli aggressori facessero MMA insieme all’aggredito, è tutto confuso, non è chiaro il motivo dello scontro.
I feed social delle principali testate d’informazione, dei colleghi, delle persone che bene o male si occupano di informazione o comunque seguono la cronaca, riportano grossomodo queste diciture: Colleferro, ritorna lo spettro della violenza. Colleferro ha un problema di violenza. Gli aggressori di Lorenzo praticavano le stesse Arti Marziali Miste (MMA) dei fratelli Bianchi. Istintivamente, penso che non vorrei essere nei panni del sindaco Pierluigi Sanna, che dovrà sorbirsi domande del tipo “come pensa di risolvere il problema della violenza giovanile a Colleferro?” e vedrà la sua cittadina di 20k di abitanti dipinta come un luogo di perdizione e disagio.
Il fatto è che questo circo equestre non è altro che un modo per ripulirci le coscienze. Puntare il dito su Colleferro, o su uno sport da combattimento, ci fa provare un senso di assoluzione simile alla confessione col prete condita da ostia domenicale. Dire che le MMA forgiano assassini seriali ci rasserena, perché per scaricarsi da ogni responsabilità basterà proibire al figlio di frequentare corsi di sport da contatto, mandandolo invece a giocare a calcetto. Magari puoi far svariare il figlio dandogli cinquanta euro in mano per un sabato sera qualunque, affinché se la goda e non diventi un mostro che usa il ground and pound e il grappling contro malcapitati ragazzini. Cerchiare di rosso il nome di Colleferro, indicarlo come un posto arido e desolato, ci permetterà di non pensare a quello che succede nelle nostre città e nei quartieri ogni giorno, ogni fine settimana.
Già, perché questa rissa non ha niente di straordinario rispetto ad una banale ricerca di news simili su Google. Basta inserire qualche parola chiave come “rissa” “giovani” “aggressioni” e scrollare. Ne possiamo contare almeno 20, in tutte le provincie d’Italia, nell’arco degli ultimi 4-5 mesi. Milano, Roma, Lanciano, Pomigliano d’Arco, Udine, Eboli, Cerignola, Porto San Giorgio, Gallarate, Cervaro, Lucca, Mestre, Foggia, Tortona, Ceparana, Manfredonia, Firenze. Baby gang che picchiano, ragazzini che prendono a sprangate mendicanti, 17enni che si accoltellano, altri che uccidono un tabaccaio, tirapugni sui denti, bottigliate in testa senza una motivazione, accerchiamenti che finiscono in una classica tempesta tutti-contro-uno. Succede dappertutto.
Ora verremo inondati di talk show presieduti da improbabili giornalisti, artisti o scrittori che parleranno dei giovani e sicuramente verrà tirata in ballo la Trap o Suburra come capro espiatorio per spiegare tutti i ragazzini che vanno in giro con un serramanico in tasca. Per quanto possa esserci una mitomania da emulazione, cantare di weeda e di bitch e di glock non basta a suffragare una correlazione tra liriche violente/condotta violenta. Se non capisci cosa significhi dare un cazzotto in bocca a un’altra persona, non hai solamente un problema di comprensione funzionale del testo rap, ma hai un problema di comprensione della vita e dell’empatia verso l’altro. Hai un problema col definire concetti come amore, rispetto, dignità, aiuto. E queste cose non te le può sottrarre l’ascolto della canzone di Guè Pequeno. È che non te le hanno fatte mai assimilare.
Ma poi, la violenza è sempre esistita. A sentire i racconti della generazione nata nei ’50 o nei ’60, prima era anche peggiore quello che si viveva per le strade. Politica, stadio, semplice supremazia da branco, caccia all’eroinomane negli anni ottanta, sfottò costanti verso chi aveva problemi estetici congeniti. I racconti di quei tempi dicono di un’Italia senza freni, dove lo scontro fisico era all’ordine del giorno. Ma senza andare troppo lontano ripensando ai tempi degli scontri di classe, ai sociologi che accosteranno le MMA e la Trap come responsabili delle risse, chiedo: e nei primi anni 2000, quando andavano forte la techno e i Green Day, chi dovevo incolpare se venivo accerchiato e preso a schiaffi da una sequela di coatti pur di far divertire le femmine della comitiva? Penso ai bulli di quando ero adolescente, se fossero esistiti i social in quegli anni i video delle loro esecuzioni avrebbero hittato il milioncino di views in tempo ventiquattro ore, tendenze YouTube fisse, Welcome To Favelas in pompa magna.
Il fatto è che viviamo in una società violenta. Da sempre. Ma ultimamente la società fa più schifo del solito. Viviamo in un mondo dove la sopraffazione è all’ordine del giorno, che sia nelle relazioni umane o nell’economia. Il mondo del lavoro è violento. La finanza è violenta. La politica è violenta. I rapporti familiari seguono il ritmo di pugni sul tavolo e porte sbattute, alla meglio, perché altrimenti resta la sottile silenziosa violenza dell’indifferenza, del far finta di niente, dell’alienazione tra madre, padre, figli. Viviamo in un mondo dove un gesto d’affetto è visto come una debolezza, dove sei uno sfigato se leggi Bukowski e sei un paraculo se ostenti un rolex mentre bevi spritz in qualche località turistica. Viviamo in un mondo dove prendiamo in giro i venditori di rose bangla. Viviamo in un mondo dove il modello di vita da seguire è Elon Musk o Jeff Bezos. Viviamo in un mondo dove i padri dicono ai figli “devi essere un bastardo per farcela, devi sgomitare e fare male per farcela, devi essere un figlio di puttana”. Viviamo in un mondo che dice l’ultimo è un pezzente, devi essere primo a tutti i costi.
Viviamo in questo mondo qui, e ci meravigliamo se i ragazzi fanno a mazzate per strada?
Oggi va così, dobbiamo accettare che siamo questo, forse dovremmo parlare coi ragazzi, ma soprattutto dovremmo prendere coscienza di chi e cosa siamo diventati. Penso che le parole di Max Pezzali e Repetto in Cumuli riescano a centrare la faccenda come una cartina tornasole:
“sì però, il vuoto credo che non si riempia mai
Per tutti è così
Sì perché è un po’ il vuoto di tutti noi
Ci sbattiamo tanto per chiuderlo
Ci proviamo e non ci riusciamo mai
Allora tanto vale conviverci”