Dal G8 di Genova ai giorni nostri, vent'anni dopo, molti temi che allora sembravano utopici sono diventati invece di stringente attualità. Dall’ambiente all’energia, dai diritti sul lavoro alla tecnologia, dal distacco della politica dai cittadini all’influenza delle grandi multinazionali. Siamo immersi in un mondo sempre più complesso che, nonostante l’abbondanza di informazioni, facciamo comunque fatica a decodificare. E così, abbiamo provato a interrogare chi da 50 anni cerca di capire lo sviluppo di questi processi nella nostra società. Si tratta del sociologo Domenico De Masi, professore emerito di Sociologia del lavoro presso l'Università “La Sapienza” di Roma, dove è stato preside della facoltà di Scienze della comunicazione.
Professore, partirei dal G8 di Genova di cui oggi ricorre il ventennale. Qual è il suo ricordo di quell’evento legato a grandi ideali che seppe esprimere, ma anche a drammatici episodi?
Intanto bisogna ricordare la manifestazione. Da una parte decine di migliaia di ecologisti, che in modo del tutto pacifico e ordinato sono arrivati a Genova per sollevare una serie di problemi che dopo 20 anni ci sembrano del tutto ovvi, ma allora erano rivoluzionari: dall’attenzione al pianeta, alle emissioni di CO2 e quant’altro. Dall’altra centinaia, se non migliaia, di Black Bloc che la polizia non riuscì a fermare, dando una dimostrazione di incapacità.
Fu solo colpa delle forze dell’ordine?
Teniamo conto che erano schierati 4mila carabinieri, 5mila poliziotti e 1200 uomini della Finanza. Un esercito, praticamente. E non riuscirono a fare nulla, anzi, morì un ragazzo come Carlo Giuliani. Per far capire la forza delle istituzioni cosa fecero? Invece di prendersela con i Black Bloc, si sfogarono con alcune centinaia di ecologisti che stavano dormendo in una scuola, la Diaz. Con la scusa di una molotov, che poi risulterà una falsa notizia. In modo del tutto vigliacco, punirono persone che non avevano nessuna colpa, per vendicarsi di non essere riusciti a punire i colpevoli. Ci sono voluti mesi per dimostrare le false ricostruzioni e le coperture di questi delinquenti. E poi, nessuno di questi, pur essendo condannati, è andato in galera. Per di più, hanno fatto carriera.
Amnesty International l’ha definita “la più grave sospensione dei diritti democratici in un paese occidentale”.
Ma certo, basta ricordare anche quello che avvenne nella caserma di Bolzaneto per tre giorni, dove accaddero cose indegne, terribili, da paese privo di qualsiasi civiltà. Purtroppo, dimostriamo di non essere cambiati molto, basta pensare a quando è accaduto di recente a Santa Maria Capua a Vetere, con la differenza che quelli di Genova non erano già carcerati.
C’è chi dice che al G8 si vollero bloccare o rallentare le battaglie che ora, a vent’anni di distanza, ci sembrano di stringente attualità, come per esempio sull’ambiente.
È vero, ma l’ecologismo viene da lontano. Pensiamo solo al Club di Roma degli inizi degli anni ’70, con un primo grande rapporto sullo squilibro ecologico del paese. Poi tutti i grandi pensatori, come Serge Latouche, oppure i teorici del “piccolo è bello”, le molte riviste come Madre Terra. È un movimento lunghissimo, che nel ’68 ebbe la prima impennata, ma solo ora viene preso in considerazione seriamente.
Si parla molto di transizione ecologica, ma da chi è trainata: dalle multinazionali o anche dall’opinione pubblica?
Per rimanere in Italia, vedo una grande differenza fra Mario Draghi e Giuseppe Conte. Draghi mi sembra più attento agli interessi delle grandi aziende, mentre Conte lo era di più ai movimenti popolari. Credo che sia palese, per la diversità dei poteri di riferimento: Conte ai M5s, Draghi ai grandi poteri mondiali di stampo neoliberista. D’altro parte, la sostituzione fra i due premier è stata fatta per questo, per dare un taglio diverso all’utilizzo dei 219 miliardi del Recovery Plan, dei quali un numero notevole andranno per la transizione ecologica.
Il lavoro è il campo su cui lei ha concentrato gran parte dei suoi studi e delle sue pubblicazioni. Le lancio una provocazione: come mai si scende in piazza contro il vaccino (o il Green pass) e per la vittoria degli Europei di calcio e non più per i diritti del lavoro?
Il problema del lavoro è percepito come di più difficile soluzione rispetto a un tempo. Fino a poco tempo fa, si diceva che per creare posti di lavoro erano necessari i soldi per la crescita in modo che gli imprenditori ingrandissero le fabbriche e quindi assumessero. Molti ancora credono a questa equazione, che però non esiste più. Se io imprenditore ho più soldi, ingrandisco l’azienda ma senza assumere più persone, ma comprando più robot o spostando l’azienda nel terzo mondo. Non a caso le aziende che in Borsa sono più quotate sono quelle che licenziano. Cioè dimostrano di poter produrre più beni e servizi con meno lavoro umano. Finalmente qualcuno lo sta capendo, però è difficile. Che servisse la crescita era un pensiero sacrosanto fino a qualche anno fa, ma ora è una bestialità.
E come mai ancora in tanti, anche in politica, continuano a chiedere più crescita?
È quello che si chiama “cultural gap”, applicano vecchi criteri a una realtà completamente nuova.
Oggi in un articolo su La Stampa, il filosofo Massimo Cacciari ha detto che “nella miseria in cui ci troviamo la politica produce paura e non cultura”. Sostanzialmente, la politica è passata dal terrorismo islamico alla crisi economica, dall’immigrazione alla pandemia e ogni forza politica si specializza su un ramo particolare di queste paure.
Perché, quando mai la politica si è occupata della gioia? Vorrei chiederlo al mio amico Massimo Cacciari…
È sempre stato così, quindi, l’atteggiamento della politica?
Certo, la politica è la gestione dei metodi per ridurre la paura: della fame, della fatica, della noia, del dolore, della malattia e della morte. È la gestione delle risorse per ridurre queste paure. Sono le sfide perenni che attendono l’uomo.
E alla gioia chi ci dovrebbe pensare?
Intanto l’effetto placebo creato, per esempio, dal progresso tecnologico, farmaceutico, di riduzione del dolore, banalizzando la sostituzione dei minatori con i robot. Tutto questo tende a placare la paura. Ma i più grandi effetti placebo contro la paura rimangono due: l’arte e la religione.