Max Verstappen di traverso all'ultima curva dell'ultimo giro del Paul Ricard, come a lasciare la propria impronta anche lì, per dire che ce l'ha fatta anche dove Red Bull veniva data per sconfitta assicurata, anche dopo un errore in partenza che doveva aver chiuso i giochi e consegnato punti importanti nelle mani di sua maestà Lewis Hamilton, il Re da spodestare dal trono di una Formula 1 che da troppi anni ormai porta solo il suo nome.
Max allunga sul campionato mentre con la testa guarda avanti, resettando la gara per concentrarsi sulla lunga distanza. Lui era un centometrista: fortissimo sullo scatto singolo, fantasista, problematico sulla costanza. Era giovane, irruento, con tutto da dimostrare. Oggi lo guardi e pensi alle maratone, perché il cambiamento mentale vero di Verstappen certo non sta nel talento, che non gli è mai mancato, ma nella testa che ha iniziato a pensare in modo diverso: alla squadra, ai punti, a un mondiale che va conquistato mettendo un piede davanti all'altro.
Così mentre Mercedes fatica dove non l'avevamo mai vista perdere colpi, Red Bull si comporta come un vero team dalla mentalità vincente. Finalmente la coppia di piloti funziona, e anche quando il numero uno sbaglia - come fatto in Francia in partenza - la scuderia c'è, e fa di tutto per recuperare.
E noi ce lo eravamo dimenticati, che la Formula 1 è questa cosa qui. Ormai da anni troppo abituati a un'egemonia tedesca in cui ogni cosa girava sempre nel modo giusto, in cui un pilota perfetto, supereroe della velocità, si incastrava alla perfezione dentro un meccanismo fatto di tecnica, lavoro e sviluppo.
Perfetto, troppo perfetto. Perché la Formula 1 deve essere un Gran Premio che per almeno tre volte cambia faccia, in cui proprio quando sembra tutto deciso, tutto finito, succede qualcosa che ribalta le aspettative, i punti, le gioie dei tifosi.
Al Paul Ricard questo weekend c'è stato un momento, uno solo, in cui la sensazione di aver dimenticato per troppo tempo qualcosa di questo sport è riaffiorata insieme alla consapevolezza di averla ritrovata.
Quando Max Verstappen, in rimonta dopo un cambio gomme necessario, ha agganciato Lewis Hamilton puntandolo e superandolo senza lasciargli il tempo di capire che cosa stesse succedendo, il pubblico si è alzato in piedi e nelle televisioni di tutto il mondo si è sentito, di nuovo, il boato delle urla. Non c'era pandemia, autodromi senza pubblico, non c'erano gare senza azione, neanche in Francia dove tutti pensavamo ci saremmo addormentati, narcotizzati da una pista noiosa. Non c'erano previsioni o prevedibilità.
Avevamo dimenticato il capitale umano. Quello dei piloti che competono per davvero, per la vittoria del mondiale, che vale tutto. E non per un terzo posto, per stare ai piedi del podio, o per arrivare nella zona punti. Qui si lotta per il tutto o per il niente, per chi il trono lo deve mantenere e per chi non ci è mai salito. E ci eravamo dimenticati del capitale umano del pubblico, quello che grida, che si alza, che c'è e che torna a godere negli autodromi, abbracciandosi, bevendo birre gelate sotto il sole e spendendo soldi (di solito pure tanti) per un gioco che è come una roulette russa. Un atto di fede da cui si esce esaltati o delusi, e dove in ogni caso si urla troppo e si piange un po'.
Quel momento, al Paul Ricard, ci ha ricordato delle persone che sono il cuore di questo sport. I piloti, i tifosi, le squadre. Il capitale umano che avevamo dimenticato, e che questo mondiale ci ha fatto riscoprire, chiunque ne esca vincitore.