Quanto deve costare un caffè al bar? Ce lo chiediamo davanti a un listino che improvvisamente è salito di diversi centesimi. Stavolta a buttarla sul tavolo è stato Oscar Farinetti - fondatore di Eataly, imprenditore a cui non manca il gusto della provocazione - che, durante un evento allo stabilimento Kimbo di Napoli, ha detto: “Un caffè dovrebbe costare almeno 2,50 euro”. Nella città del vero espresso italiano. Boom. Ma forse Farinetti non sta solo tirando fuori l’ennesima trovata per finire in prima pagina. Il suo ragionamento è chiaro: il costo della materia prima è schizzato (+300% negli ultimi due anni), ma il prezzo al banco è rimasto inchiodato a 1,10 euro. In pratica, secondo lui, stiamo bevendo un prodotto sottocosto, e a pagarne le conseguenze – in termini di qualità e sopravvivenza dei bar – sarà tutta la filiera. Farinetti lo dice da tempo, il barista è il “cuoco del caffè”, va trattato come un professionista vero, non come uno che ti allunga un espresso a caso. E se non lo paghiamo il giusto, finiremo a bere roba scadente. Ma il problema è che il caffè, in Italia, non è un prodotto come un altro. Non è il vino o l’olio extravergine che puoi raccontare e vendere a 40 euro a bottiglia. È un rito sociale, è il “ci vediamo per un caffè?”, è il break in ufficio, è la scusa per incontrare un amico. Toccarne il prezzo significa toccare un pezzo di cultura popolare. Edoardo Raspelli, storica firma del giornalismo gastronomico e uomo che di cibo e tradizioni se ne intende parecchio, ci ha mandato la sua opinione. E dalle sue parole si capisce bene perché questa discussione scalda così tanto: “Anche se il mio dentista dice che il caffè, come la Coca Cola del resto, macchia i denti, io adoro il caffè". Già qui c’è tutta la verità: il caffè non è solo una questione di soldi, è un amore che resiste persino ai rimproveri del dentista.

Raspelli non lo vuole annacquato né corretto: “Ovviamente perfettamente solo, senza zucchero o correzioni e, magari, bollente sedendo tra la gente”. Ed è un’abitudine quotidiana, quasi compulsiva ma felice: "Con mia moglie, nel nostro rifugio montano in cima al Piemonte, mi stacco dalla scrivania dal computer e dal cellulare anche 7-8-10 volte al giorno per farmi una tazzina (per me ‘lungo’) con la macchinetta automatica". Non stiamo, quindi, parlando di una coccola sporadica, ma di un rito che scandisce le giornate. Non a caso, quando Raspelli pensa al caffè, gli viene in mente Eduardo De Filippo: “Ho ricordi da ragazzo del celebre monologo di Eduardo De Filippo dal balcone con la tazzina in mano…”. E qui si sente la nostalgia di un’Italia dove il caffè non era una merce da calcolare in base al Nasdaq: “Francamente ho tante nostalgie del passato: quando la caramellina di liquirizia, la Golia della mia infanzia, costava 1 lira negli anni tra il 1956 ed il 1960 e quando 50 anni fa, nel 1975, al banco ti costava 150 lire, 8 centesimi di euro di oggi". Raspelli non fa analisi finanziarie, ma lancia un messaggio che va dritto al cuore di chiunque ami l’espresso italiano: “Non me ne intendo di finanza ma vorrei che tutti noi potessimo gustarci a prezzi moderati questa tazzina della felicità”. Ecco il punto: il caffè, per il popolo italiano, è una “tazzina della felicità”, non un bene di lusso. È chiaro che la filiera va sostenuta, che non possiamo spremere baristi e produttori all’infinito, ma l’idea di trasformare l’espresso in una mini esperienza gourmet da 2,50 euro al banco (chissà quanto, poi, al tavolo) rischia di rompere quel patto sociale che lo ha reso il simbolo del nostro stare insieme.
