La questione emerge ufficiosamente per la prima volta il 27 ottobre 2020 (ma si è saputo solo di recente), quando nella redazione del Fatto Quotidiano viene recapitata una busta anonima che contiene dei verbali (a quanto pare risalenti a dieci mesi e mezzo prima e non firmati) di un interrogatorio condotto dal procuratore aggiunto di Milano Laura Pedio e il sostituto procuratore Paolo Storari. L’interrogato è l’avvocato Piero Amara, classe 1969, siciliano, ex legale esterno dell’Eni, personaggio conosciuto ai cronisti di giudiziaria in quanto già condannato per corruzione in atti giudiziari e al centro, negli ultimi anni, di molte manovre. Più che come avvocato, però, Amara è noto come “pentito”, perché da qualche anno spunta in ogni inchiesta, citato come testimone dell’accusa in diversi processi: “È stato lui – riferisce sulla Verità il direttore Maurizio Belpietro – il teste principale usato dalla Procura di Milano per trascinare sul banco degli imputati Claudio Descalzi, amministratore delegato del cane a sei zampe, nell’inchiesta flop per una presunta tangente miliardaria in Nigeria”. Amara tira in ballo varie altre persone, tra cui l’ex segretario Anm ed ex consigliere del Csm (ora giudice radiato) Luca Palamara: “Un pm di Roma, Stefano Fava – aggiunge Belpietro – a un certo punto del disinvolto avvocato siciliano chiese l’arresto, convinto che l’ex legale dell’Eni fosse un inquinatore di pozzi e spargesse notizie a suo uso e consumo. Ma i vertici della Procura della Capitale, in particolare Paolo Ielo, si opposero, ritenendo che Amara fosse fondamentale per l’accusa. Così il pentito itinerante è finito in una quantità di procedimenti, che quasi sempre si reggono solo sulle sue testimonianze. Da Roma a Milano, da Brescia a Perugia: una infinità di rivelazioni in gran parte già smentite da sentenze, alcune anche definitive”.
Nei verbali arrivati al Fatto si descrive una loggia massonica denominata “Ungheria” in perfetto stile P2: ne farebbero parte altissimi funzionari dello Stato e del Vaticano, ma il sodalizio avrebbe condizionato soprattutto il Csm attraverso un considerevole numero di magistrati di primo piano. La missione della loggia sarebbe quella di pilotare le nomine nel Consiglio superiore della magistratura e delle procure più importanti d’Italia, per poi fare affari e scambi di favori tra soci e simpatizzanti, con l’obiettivo ultimo di difendere lo stato di diritto, in modo da contrastare il giustizialismo dilagante nella magistratura italiana. Chi ne fa parte? Si parla di una quarantina di nomi, tra giudici, vertici istituzionali e capi delle forze dell’ordine. Gli affiliati alla loggia si chiamerebbero “fatti” o “sverginati”. Tra loro, nessun vincolo di obbedienza gerarchico, ma solo di solidarietà, con scambio di favori. tu fai un favore a me e io faccio un favore a te. I vertici (“i vecchi”) si incontrerebbero di tanto in tanto a Roma a casa di un politico e di un lobbista, mentre per alcuni incontri sarebbero state scelte alcune chiese nel centro della Capitale. Il codice per riconoscersi tra “fratelli” consisterebbe nel premere per tre volte l’indice sul polso e dire “Sei mai stato in Ungheria?”, con l’interlocutore che per dimostrare di essere anche lui un adepto dovrebbe non rispondere.
“Amara – stando a quanto riportato da Domani – racconta di essere entrato nella loggia quindici anni fa grazie a Giovanni Tinebra, ex potente procuratore a Caltanissetta, già capo del Dipartimento amministrazione penitenziaria (Dap) e vicepresidente della corrente Magistratura indipendente. Sarebbe stato Tinebra in persona a cooptarlo nella loggia (Tinebra non può smentire, perché è morto nel 2017, ma dal suo entourage spiegano che è «un’assoluta falsità»)”. Riguardo ai presunti membri della loggia, sempre Domani sostiene che “Amara non ha ancora consegnato una lista (e nemmeno il suo socio Giuseppe Calafiore, che dice di sapere tutto). La guardia di finanza ha perquisito casa sua senza trovare nulla. L’ex legale dell’Eni ammette di avere contribuito a nominare, su richiesta di confratelli, politici e amici nelle istituzioni regionali siciliane, elargito consulenze a destra e a manca, ottenuto finanziamenti pubblici […]. Con l’obiettivo principale, da «soldato semplice» della loggia, di far fare business ai più alti in grado, e crescere nei ranghi dell’ordine misterioso che sarebbe nato venti anni fa”.
Il Fatto non pubblica nulla e, stando a quanto riferito dal giornalista incaricato della pratica (Antonio Massari), porta le carte in Procura a Milano, la stessa Procura dalla quale apparentemente erano uscite.
Nel frattempo, si muove anche Paolo Storari, il sostituto procuratore di Milano che ha interrogato Amara e che a quanto pare non concorda con la linea tenuta dai propri superiori: per questo tra marzo e aprile 2020 consegna una copia dei verbali a Piercamillo Davigo, ex pm di Mani Pulite e allora membro del Csm: “Una mossa – secondo Repubblica e non solo – del tutto irrituale, non si portano documenti riservati fuori dalla Procura. Storari, in seguito, dirà di averlo fatto come tentativo di autotutela, un atto dovuto per il buon esito delle indagini”. Davigo si rende conto che tra i presunti massoni della loggia Ungheria ci sono nomi importanti: “Amara – scrive Marco Travaglio sul Fatto – tira in ballo due colleghi del Csm, il suo compagno di corrente Ardita e Mancinetti”. Per questo Davigo – lo spiega a Piazzapulita e lo ribadisce a Non è l’Arena – ritiene di non poter seguire le vie formali.
Secondo l’ex procuratore aggiunto di Milano Alfredo Robledo e altri, invece, sulla base di una circolare del 1994, in questi casi “il pubblico ministero che procede deve dare immediata comunicazione al Consiglio con plico riservato al comitato di presidenza di tutte le notizie di reato e di tutti gli altri fatti che possono essere interesse del Consiglio”. Per Davigo però “la circolare considera situazioni normali, non situazioni drammatiche come questa. Il sostituto – è quanto detto dall’ormai ex magistrato a una giornalista di Non è l’Arena – non poteva rivolgersi al suo procuratore, a cui si è rivolto già più volte invano, dice lui. Non poteva rivolgersi al procuratore generale perché la sede era vacante. Avrebbe dovuto mandare una raccomandata? Perché questa è la veste formale: avrebbe dovuto mandare una raccomandata al Consiglio. Invece di mandare una raccomandata lo ha detto a me e io l’ho detto al comitato di presidenza, perché la delicatezza della situazione faceva sì che una raccomandata avrebbe creato problemi di segretezza. Poi il problema è che il Consiglio non avrebbe mai potuto adottare nessuna pratica formale in quella fase senza distruggere le indagini, e quindi si è fatto quello che si doveva fare. Il procuratore generale ha chiamato il procuratore di Milano e gli ha chiesto per quale ragione non l’avessero ancora iscritto. Dopodiché non c’è nessun mistero, e discutere del contenitore invece che del contenuto a me sembra fuorviante”.
Palamara replica che la sede della Procura generale non è mai vacante. Anche il giurista Carlo Nordio a Quarta Repubblica dà torto a Davigo su questo e altri punti: “Il segreto investigativo esiste anche nei confronti del Csm. Quando ci sono delle indagini nei confronti di un magistrato, l’ufficio del pubblico ministero che procede ha il dovere di informare il Csm, però deve farlo in via gerarchica e impersonale, con atti inviati al Consiglio di presidenza del Csm, del quale peraltro non faceva parte Ardita. Non è pensabile che un singolo sostituto possa accedere personalmente a un membro del Csm che lui stesso si sceglie. Le vie formali si possono e si devono seguire a maggior ragione quando si parla di magistrati. Questo non è stato fatto e questo costituisce una gravissima anomalia. Che poi sia o non sia reato andrà accertato. È un reato divulgare atti coperti da segreto istruttorio (violazione del segreto istruttorio) ed è un reato anche riceverli (ricettazione)”.
Il Fatto riferisce che Davigo “il 4 maggio [2020], nella prima trasferta a Roma dopo il lockdown, racconta tutto al vicepresidente Ermini perché ne informi il presidente Mattarella”. Davigo a quanto pare avvisa pure altri due membri del comitato di presidenza del Csm (il procuratore generale della Corte di Cassazione Giovanni Salvi e il primo presidente della Corte di Cassazione Pietro Curzio), facendo loro il nome di colui che viene citato nei verbali come presunto membro della loggia Ungheria: il già citato Sebastiano Ardita, che oltre a essere togato del Csm è suo ex amico e compagno di corrente, con il quale ha interrotto ogni rapporto dal marzo 2020. Per Travaglio “Davigo dice qualcosa anche a tre consiglieri che gli chiedono perché non parla più con Ardita”. Secondo Giovanni Bianconi e Fiorenza Sarzanini sul Corriere del Sera «è come se avvisando i colleghi (i togati Giuseppe Cascini e Giuseppe Marra, il laico Fulvio Gigliotti, ma probabilmente anche altri), Davigo avesse proseguito la sua partita contro l’ex amico, mentre a Milano il pm Storari ingaggiava quella contro il suo capo, accusandolo di non svolgere i dovuti accertamenti sulle rivelazioni di Amara”.
Anche il presidente della commissione antimafia, il grillino Nicola Morra, dice di essere stato informato da Davigo, a giugno o a luglio 2020 (“ricordo solo che faceva molto caldo”): “Io sono stato invitato da Davigo – le parole di Morra a Non è l’Arena – a uscire dal suo studio, perché me li ha mostrati [i verbali] sulla tromba delle scale a Palazzo dei Marescialli (sede del Csm, ndr)”. Nella tromba delle scale? “Sembrerà anomalo come è sembrato a me. Ma questo è un Paese in cui i trojan funzionano a intermittenza, di conseguenza io capisco che ci possano essere molte prudenze”. Che succede sulla tromba delle scale? “Mi è stato mostrato un faldone di carte […] e ho letto il nome di Ardita”. Solo quello? “Uno solo, perché si stava ragionando della possibilità di ravviare un dialogo tra Davigo e Ardita […] e, forse per tutelare la stessa operatività della commissione, Davigo ha ritenuto opportuno e giusto mettermi al corrente di questo fatto. A me è stato detto «c’è un collaboratore che in una Procura del nord sta rilasciando dichiarazioni sull’appartenenza di Sebastiano Ardita a una loggia massonica a partire dai primi anni Duemila»”. Ma di nomi ce n’erano tanti. Perché solo Ardita? “Io credo di capire quale sia l’evento sul quale si è consumata la rottura: la nomina del capo della Procura di Roma. C’è stata una rottura pubblica, dopo la bocciatura della prima terna, Viola, Creazzo, Lo Voi, si è arrivati a un’altra scelta, con una spaccatura del gruppo di Ardita e Davigo. E da questo punto di vista io penso che ci sia stata la tutela da parte di Davigo di mettermi al corrente di supposti fatti inerenti solo e soltanto Ardita. […] Il problema – secondo Morra – è che si addensavano nubi importanti su un consigliere del Csm e soprattutto su uno dei magistrati antimafia più importanti”. Davigo ha chiesto a Morra di interrompere i rapporti con Ardita? “Assolutamente no, anzi a mia precisa domanda Davigo mi suggerì di usare prudenza ma non di interrompere i rapporti”.
Nel frattempo Davigo lascia (o meglio, viene fatto lasciare tramite votazione) il Csm e va in pensione. Nell’autunno 2020 comincia l’invio ai giornali, ma il dossier non viene inviato solo ai giornalisti: anche Nino Di Matteo, ex pm di Palermo, a sua volta membro del Csm, ne riceve una copia, accompagnata a quanto pare da una lunga lettera anonima di denuncia del presunto immobilismo della magistratura sull’argomento: “Mentre il Consiglio superiore della magistratura rischiava il collasso per la vicenda Palamara – la ricostruzione di Giuliano Foschini e Conchita Sannino su Repubblica – mani diverse veicolavano all’interno dello stesso Csm, e anche alle redazioni dei giornali, atti riservati di indagine (coperti da segreto istruttorio) in grado di esercitare una forza di intimidazione e ricatto sugli organi istituzionali”.
Visto che il Fatto non pubblica una riga, a inizio 2021 i verbali arrivano anche a Repubblica, in particolare a Liana Milella: “In quarant’anni di lavoro – il racconto della diretta interessata – non mi era mai capitato che una fonte, per di più anonima, mi «regalasse» dei verbali. Chiedendomi prima al telefono se volevo riceverli, per scoprire poi le sorprese che contenevano. Per questo, quel 24 febbraio intorno alle 11, quando sul mio cellulare compare uno «sconosciuto», resto sorpresa. È una voce di donna. Ne intuisco un vago accento nordico. Non esito. Sì, rispondo dando il mio indirizzo di casa, «mi mandi pure il materiale, lo leggerò con interesse, e valuterò». La fonte è prodiga, mi garantisce che il primo sarà solo un invio parziale. Perché di «carte da far tremare il Paese» ce ne potranno essere altre. Ecco. Due giorni dopo la busta compare nella mia cassetta delle lettere. Sono proprio dei verbali. Nei quali, con la procura di Milano nel dicembre 2019, parla l’avvocato Piero Amara. Sono tre. Il primo del 6 dicembre. Gli altri due dello stesso giorno, la mattina e il pomeriggio del 14. Li sfoglio. E noto subito un’anomalia che mi mette in allarme. Perché questi verbali non sono firmati in calce, come dovrebbero essere, dai pm che li hanno raccolti. Cominciano i dubbi. I perché insistenti sulla fonte che li ha inviati. Scorro il contenuto. Mi saltano subito all’occhio nomi importanti, a partire da quello di Giuseppe Conte. Ma ce ne sono altri di spicco. Molti li conosco. Si parla di una loggia, e sono tante le persone coinvolte. Leggo e rileggo. […] C’è una lettera che accompagna i verbali. Poco meno di una pagina. Il contenuto è simile a quello della telefonata. Mi si dice che leggendo «scoprirò un nuovo mondo che ci tengono a mantenere segreto, anche ad ALTI e ALTISSIMI LIVELLI». Il maiuscolo non è casuale. «CANE NON MORDE CANE (come dice Palamara) CHE FORSE, E ANZI TOLGO FORSE, HA RAGIONE». Chi invia le carte lamenta che siano state tenute «in un cassetto chiuso a chiave già da più di un anno». Si cita il procuratore di Milano Greco. E anche il pg della Cassazione Salvi che sarebbe «a conoscenza». Segue la promessa di altri verbali e una sorta di sfida: «Immagino che non potrà pubblicare questa roba scottante»”. Anche Milella decide di non pubblicare e di denunciare: “Per aver ricevuto atti apparentemente giudiziari. In una forma che mi appare anomala e che potrebbe nascondere un depistaggio. È un passo che mi costa fatica e tormento interiore perché so bene che le fonti sono sacre. Ma lo sono se appartengono alla categoria delle fonti trasparenti”.
Il presunto mittente, il cosiddetto “corvo”, viene individuato in Marcella Contrafatto, storica funzionaria del Consiglio superiore della magistratura e fino a qualche giorno prima segretaria di Davigo. Dopo il pensionamento di Davigo, la donna è diventata segretaria di un altro consigliere del Csm, Fulvio Gigliotti: “Non ho nessuno speciale rapporto di confidenza con la signora – le parole del membro del Csm a Non è l’Arena – che mi ha semplicemente informato della perquisizione che ha ricevuto”. Contrafatto avrebbe riferito a Gigliotti che i verbali le sarebbero arrivati per posta: “Questo è quello che mi ha detto”. Non è strano? “Sì, certo, l’ho anche detto, mi è sembrato strano”.
Inseguita dall’inviato dal programma, la signora non risponde ad alcuna domanda. Lo fa invece, mentre butta la spazzatura, il marito della donna, l’ex magistrato Fabio Massimo Gallo: «È solo un’ipotesi investigativa al vaglio della magistratura. Se qualcuno vuole mandare un plico anonimo, va in redazione, lo lascia e sparisce, come facevano le Br”. Quindi non è stata lei? “L’abbiamo già dichiarato che non è stata lei”. Perché l’esperta, fidata impiegata del Csm si sarebbe trasformata in Corvo? Questa una delle tante domande al momento ancora senza risposta, almeno ufficialmente.
Si arriva poi al 28 aprile 2021, giorno in cui accadono due cose: Di Matteo al plenum del Csm parla dei verbali ricevuti (“Auspico che le indagini in corso possano far luce sugli autori e sulle reali motivazioni della diffusione di atti giudiziari in forma anonima all’interno di questo Consiglio superiore”) e Domani riferisce che “Amara sostiene di aver favorito Giuseppe Conte, in quel momento presidente del Consiglio, quando nel 2012 invitò il suo amico Fabrizio Centofanti ad affidargli un incarico per conto della Acquamarcia spa. La vicenda, già vagliata dalla procura di Milano, non ha mostrato alcun profilo di illiceità, ma inserire il nome dell’allora presidente del Consiglio in un contesto «massonico» in stile P2 non poteva che produrre un effetto destabilizzante”. A quel punto, scoperchiato il vaso dell’Ungheria, tutti pubblicano tutto, a cominciare dal Fatto, che il 29 aprile racconta quanto accaduto sei mesi prima.
Il 30 aprile il vicepresidente del Csm Ermini interviene sulla vicenda: “Il Csm è del tutto estraneo a manovre opache e destabilizzanti, ma è semmai obiettivo di un’opera di delegittimazione e condizionamento tesa ad alimentare la sfiducia dei cittadini verso la magistratura. Auspico la più ferma e risoluta attività d’indagine da parte dell’autorità giudiziaria al fine di accertare chi tenga le fila di tutta questa operazione”.
Successivamente il Corriere pubblica le dichiarazioni di alcuni dei presunti membri della loggia: Michele Vietti, ex vicepresidente Csm, parla di “una via di mezzo tra una barzelletta e una mascalzonata. È un’accusa talmente grottesca che fa ridere, ma è anche molto grave. Perché inverte l’onere della prova. Come faccio a dimostrare di non far parte di un’associazione segreta che non si sa nemmeno se esiste? Mi ricorda i pentiti di mafia degli anni ’90. Per fuggire alle loro responsabilità dicevano quello che i pm volevano sentire e si sa come finì”. Emma Marcegaglia, ex presidente di Confindustria, dice “non ho mai frequentato e men che meno fatto parte di logge o circoli di qualsivoglia natura. Né ho mai conosciuto o incontrato l’avvocato Amara in vita mia. Anzi, fui proprio io come presidente dell’Eni, a decretare, assieme agli organismi di controllo della società, la sua cacciata”. Per Livia Pomodoro, ex presidente del tribunale di Milano, “è un equivoco, non lo conosco. E non ho mai fatto parte né di questa né di alcun consorzio. Sono lontana dall’amministrazione dal 2015. E ora sono presidente dell’accademia di Brera, mi occupo di cose serie”. Per Carlo Maria Capristo, ex procuratore di Trani, “se non fosse drammatico, sembrerebbe un film di Salemme”. Nella lista secondo il Corriere oltre ai già citati e all’ex pm antimafia Sebastiano Ardita ci sarebbero l’ex guardasigilli Paola Severino, il presidente della delegazione italiana della Fondazione Abertis Giancarlo Elia Valori, giudici, generali, avvocati.
Il 5 maggio Davigo viene chiamato in Procura a testimoniare: “Ritengo inusuale – spiega al Tg2 – quello che era accaduto a monte, cioè che un sostituto procuratore lamentasse che non gli consentivano di iscrivere una notizia di reato. Non posso parlare del contenuto dei verbali, posso solo dire che per fare le indagini bisogna iscrivere una notizia di reato, che siano vere o false le cose dette, e non è pensabile di ritardarle ingiustificatamente. Quindi Storari per tutelarsi ha informato una persona che conosceva e io ho ritenuto di informare chi di dovere. Non c’è stato nulla di irrituale perché il segreto non è opponibile ai consiglieri del Csm”.
Il 6 maggio il presidente della Repubblica (e del Csm) Sergio Mattarella e il ministro della giustizia Marta Cartabia visitano la sede del Consiglio, ma nessuno dei due parla. Parla invece ancora Ermini: “La credibilità esterna della magistratura, nel suo insieme e in ciascuno dei suoi componenti, è – dice – un valore essenziale in uno Stato democratico, oggi più di ieri”.
Molto rimane da chiarire. Per ora, a quanto sarebbe emerso, le indagini in corso riguarderebbero il pm di Milano Paolo Storari (indagato a Roma per rivelazione del segreto d’ufficio), l’ex segretaria di Davigo Marcella Contrafatto (indagata sempre a Roma per calunnia) e Piero Amara (indagato a Perugia per millantato credito e traffico di influenze), con la Procura di Brescia che avrebbe aperto un’inchiesta per ora a carico di ignoti. In tutto questo ci sarebbe anche da capire se questa loggia Ungheria esiste (o esisteva) davvero. Non proprio un dettaglio.