Nei giorni della disfatta occidentale in Afghanistan ricorre un leitmotiv che si sente ripetere a ogni missione di pace fallita (ma facendo la guerra) e che recita più o meno così: «Di quel paese non abbiamo capito niente». E come ogni luogo comune, naturalmente, poggia su una parte di verità. Ma perché, nell’epoca dell’informazione diffusa e apparentemente gratuita per tutti, questo mantra è ancora così forte e sembra quanto mai attuale? Forse riguarda anche e soprattutto il nostro mestiere, quello di giornalisti, che da anni non si svolge più sul campo, ma dietro a una scrivania. Anzi, peggio, direttamente dai divani o dalle tavole delle nostre case, visto che – complice la pandemia – quasi nessuno frequenta più neanche le redazioni. Figuriamoci andare all’estero, spendere soldi propri (perché nessuna testata giornalistica italiana è disposta a investire in questo), rischiare la vita per poi sentirsi rispondere: «È interessante, ma non c’è budget».
Non mancano i giornalisti che continuano a provarci da freelance. L’ultimo esempio ce lo ha dato Francesca Mannocchi, una donna - e sappiamo quanto in certe aree questo dettaglio abbia maggior valore -, che proprio dall’Afghanistan è stata l’unica collega italiana a raccontare la presa di Kabul da parte dei talebani, facendoci capire in diretta quel che stava accadendo e come, con informazioni dettagliate che nessun analista a duemila chilometri di distanza o il copia e incolla dai siti stranieri ci avrebbe potuto far comprendere. Ma l’informazione di un paese come l’Italia, che tra l’altro non gode neppure di una lingua molto diffusa come l’inglese, può permettersi di basarsi su chi “ci prova” a proprio rischio e pericolo e riesce a racimolare qualcosa solo quando il tema è trend topic (prima non c’è budget) senza una copertura costante e professionale delle aree sensibili del pianeta?
Evidentemente no, visto lo stupore con il quale l’opinione pubblica ha accolto il ritorno dei talebani. Ma bastava ascoltare le testimonianze dei militari che hanno partecipato alle missioni e degli attivisti delle Ong impegnate sul posto, per capire che da tempo era risaputo: l’impegno occidentale in Afghanistan non stava producendo, a parte casi isolati nelle grandi città, risultati significativi nella popolazione verso una possibile democratizzazione. I soldi sono stati spesi, tanti e male, e basterebbe un dato per renderlo lampante: su 300mila soldati afgani addestrati dagli americani (e dai nostri militari italiani), durante l’avanzata degli “studenti coranici” non un solo colpo è stato sparato in difesa dei “diritti conquistati” in questi ultimi 20 anni.
Allora, a questo punto, sarebbe giusto chiedersi di chi sono le responsabilità. Sono tante e non nascono da oggi e, probabilmente, servirebbe un libro per elencarle e spiegarle nel modo più appropriato. Ma ce n’è una che grida vendetta: perché la Rai non ha nessun corrispondente in Afghanistan? Il servizio pubblico, rispetto alle testate giornalistiche private, avrebbe infatti un dovere imprescindibile in una questione così importante. Milioni di italiani pagano il canone, in più sopportano che in ogni programma vengano inserite pubblicità come in una qualsiasi televisione privata, ma nello stesso tempo non possono godere di una informazione approfondita sul mondo che li circonda.
Gli inviati non mancherebbero, il problema è che questi giornalisti, spesso con un glorioso passato anche sul campo, da tempo ci raccontano come vanno le cose da uffici all’ultimo piano di un sontuoso palazzo, con alle spalle suggestive vedute di una grande città che però si trova spesso e volentieri e migliaia di chilometri dai fatti in corso. Con grande maestria, nei telegiornali all’ora di pranzo o di cena ci propongono i loro temini scritti in punta di penna ed enunciati con grande enfasi, ma che si basano su informazioni alle quali tutti noi possiamo avere accesso, ci propongono immagini probabilmente acquistate (a caro prezzo) da qualche agenzia esterna e poi, una volta concluso il loro minuto e mezzo di servizio, tornano nei loro accoglienti loft a seguire lo svolgimento di questioni epocali senza avere il benché minimo contatto con la realtà. Un lavoro che portano avanti a fronte di retribuzioni che fanno impallidire qualsiasi freelance. Una inchiesta di Repubblica dello scorso anno, solo per avere una stima di massima, ha calcolato che Giovanna Botteri guadagnava circa 200mila euro l’anno. Evidentemente meritati, non lo mettiamo in dubbio, ma dove sono finiti gli investimenti per chi dovrebbe consumare le suole delle scarpe?