Con la riconquista talebana dell’Afghanistan, l’Occidente ha subito una sconfitta epocale a vent’anni dall’occupazione. Forse anche per provare a mascherare questo tonfo, c’è chi più o meno in buona fede sta dando credito alla narrazione che vorrebbe questo gruppo radicale islamista improvvisamente diventato “moderato”. Davvero i talebani sono diventati “talebuoni”? Basterebbe andare oltre le immagini della conferenza stampa del portavoce dei Taleban (quello che, sottolinea La Stampa, “finora era noto solo per il suo nome di battaglia, Zabihullah Mujahid, e i comunicati che rivendicavano attacchi e stragi di «invasori»”, ma è regolarmente su Twitter mentre Donald Trump per presunta istigazione alla violenza è stato bannato a vita) per avere qualche dubbio: gente che pur di scappare dal nuovo Emirato islamico si aggrappa alle ruote di un aereo e precipita nel vuoto, gente impiccata o nella migliore delle ipotesi frustata in pubblico. Dopodiché ci sarebbero le testimonianze di chi dice di aver assistito all’avvio del “censimento dell’orrore” casa per casa, alla caccia, a quanto viene detto, di ragazze da “affidare” a qualche comandante o membro dell’Emirato. E poi ci sono gli esperti.
C’è Ahmed Rashid, che da quasi trent’anni segue l’evoluzione dei talebani, che su Repubblica parla di “un grosso errore di valutazione da parte degli americani” che porterà a una “gigantesca crisi umanitaria”, con la possibilità che “milioni di persone cerchino rifugio nei Paesi limitrofi al Pakistan ma anche in Europa”.
C’è Matteo Pugliese, esperto di sicurezza internazionale ed estremismo, che su Domani sottolinea che l’alleanza tra i Talebani e al Qaida non è mai finita e che l’Afghanistan potrebbe tornare un “santuario” da cui lanciare attacchi all’Occidente.
C’è Gian Micalessin che sul Giornale fa notare che “mentre Kabul si consola con l’apparente moderazione dei talebani 2.0, dalle province più remote arrivano i resoconti dei rapimenti di decine di ragazzine appena dodicenni strappate alle famiglie vicine all’ex-governo. Mentre su Internet circolano i video dello sgozzamento di 22 soldati arresisi, a giugno, agli islamisti nella città di Dawlat Abad. E non rassicura neppure la svolta di un movimento che nel 1995 distruggeva radio e tv, mettendo al bando canti e balli, mentre oggi utilizza con maestria social e telefonini. Per capirlo basta ricordare quanto già visto in Siria e Iraq dove lo Stato Islamico abbinava l’intransigenza delle decapitazioni seriali ad una raffinata comunicazione per immagini ispirata al linguaggio delle serie tv. Del resto gli stessi talebani che oggi promettono di escludere dal proprio territorio i gruppi pronti a «minacciare altri paesi» non hanno esitato sabato a rimettere in libertà migliaia di militanti di Al Qaida e dello Stato Islamico detenuti delle carceri di Bagram e Pul-I- Charky. Terroristi pronti fin da ora a usare l’Afghanistan come loro base. Per capire come nulla sia cambiato bastano le dichiarazioni di quel capo talebano che, intervistato dalla Cnn, auspica di continuare a impugnare il kalashnikov «fino a quando la legge del Corano dominerà il resto del mondo»”.
E a questo e ad altro rischi principalmente esterni si aggiungono quelli interni per la popolazione e in particolare per le donne.
Come la repressione nel sangue con spari sulla folla scattata già nelle ore successive.
Chi sono i “nuovi” talebani?
Il volto nuovo del secondo Emirato islamico dell’Afghanistan è il portavoce Zabihullah Mujahid, che ha detto che i talebani non vogliono più guerre civili ma legge e ordine, che violenze e irruzioni nelle case sarebbero opera di “banditi” e non dei combattenti islamici, ha promesso di rispettare i diritti delle donne pur in una cornice di legge islamica (ehm…) e di permettere loro di studiare e lavorare “negli ospedali e ovunque siano necessarie”. E poi – ricostruisce La Stampa – “ha annunciato un’amnistia che riguarderà tutti quelli che «hanno collaborato con gli americani» e persino «i soldati che hanno combattuto contro di noi», cioè le odiate forze speciali, e un governo inclusivo: «La guerra è finita, sono tutti perdonati»”.
Il capo politico e numero due del movimento sarebbe Abdul Ghani Baradar, 53 anni: “È tornato da Doha, Qatar […]. Si è diretto – sostiene l’inviato a Beirut del quotidiano torinese, Giordano Stabile – non a Kabul ma a Kandahar, roccaforte storica del gruppo jihadista, fondato qui dal mullah Omar, dallo stesso Baradar, e una cinquantina di allievi di una scuola coranica. A Kandahar erano attesi da Quetta, Pakistan, anche i principali esponenti del Consiglio della Shura, l’organo supremo del movimento, e soprattutto il numero uno, l’emiro Haibatullah Akhundzada, 60 anni, prudentissimo perché ha visto il suo predecessore, Akhtar Mansour, fulminato da un drone nel maggio del 2016. Gli Usa hanno dato la caccia anche a lui, fino al 2018, quando sono cominciati i negoziati per il ritiro della Nato.
Come è stato possibile?
Perché un intervento armato occidentale durato un ventennio si è volatilizzato, lasciando l’Afghanistan inerme e la comunità internazionale imbambolata? Prova a rispondere Duilio Giammaria, direttore di Rai Documentari e per molti anni inviato in quelle zone, che su Domani ha individuato i principali errori che a suo avviso spiegano il disastro. Eccone alcuni.
- Talebani uguale Al Qaida
“Errato: i Talebani, pur ospitando il gruppo guidato da Osama Bin Laden, non avevano una assoluta comunità di intenti”. - Cacciati i talebani, l’Afghanistan sarebbe tornato un paese civile e democratico
“Assunto semplicistico: l’Afghanistan aveva, già nel 2001 più di vent’anni di guerra alle spalle, prima contro l’Armata Rossa, poi con la guerra civile che aveva ridotto il paese in macerie. Violenze e traumi della guerra si aggiunsero a oscure tradizioni tribali, in cui – per esempio – i matrimoni con spose bambine erano accettati e il ruolo della donna del tutto subalterno. La mancanza di scuole, infrastrutture, acqua, luce, aveva fatto ricadere il paese in un cupo medioevo”. - Il massiccio investimento di risorse e know-how avrebbe trascinato il paese nella modernità, allontanandolo dall’influenza talebana
“Grave presunzione: molti dei progetti di cooperazione erano costruiti da personale con scarsa esperienza di un paese così complesso”. - Il controllo di un paese come l’Afghanistan non poteva essere risolto neppure dal più potente apparato militare occidentale
“Vero. Dopo i primi mesi dall’invasione americana, i talebani si riorganizzarono subito. Per ogni combattente americano erano necessari almeno altri dieci uomini per gestire basi, infrastrutture, servizi. I talebani con pochi uomini ben piazzati potevano tenere in scacco forze molto superiori”. - Nei cruciali mesi successivi all’invasione afghana, gli Stati Uniti iniziarono a pensare all’invasione in Iraq
“In pochi mesi l’Afghanistan scomparve dalle prime pagine e dall’attenzione internazionale. Risorse cruciali furono dirottate sull’imminente invasione dell’Iraq. Anche questo per gli afghani fu un chiaro segnale che non ci si poteva fidare delle promesse occidentali”. - L’arrivo delle telecomunicazioni moderne avrebbe fatto fare un salto alla società afgana
“Vero, ma solo in parte. […] Gli afghani investirono i loro risparmi in telefonini, ma continuavano a vivere in fatiscenti quartieri di case di argilla costruite senza luce, acqua, fognature”. - La concentrazione degli aiuti a Kabul
“Gravissimo errore. La gran parte degli aiuti e dei servizi offerti dalle cooperazioni internazionali furono concentrati nei centri urbani, attirando così profughi che rientravano dal Pakistan, dall’Iran e dalle zone rurali del paese. Kabul quadruplicò gli abitanti in pochi mesi. L’Afghanistan, dimenticò la sua identità rurale a favore di un inurbamento selvaggio. I signori della guerra afgani realizzarono interi quartieri di ricche dimore kitsch mentre gran parte della popolazione viveva in case di fango. Nel frattempo, i talebani avevano mano libera nelle remote zone rurali”. - Millantatori contro i veri esperti del paese.
“I grandi esperti di Afghanistan, come Gino Strada, furono tenuti ai margini dai processi decisionali. […] Rimasero inascoltate persone della taglia di Nancy Dupree. […] E ancora, Philip Marquis della delegazione archeologica francese, che ha preservato il tempio buddista a Mes Aynak, nel Logar, in una delle zone a più alta concentrazione talebana. L’esperienza di queste donne e uomini non divenne mai parte del decision making sul paese”.
Per Giammaria, quello a cui stiamo assistendo in questi giorni “è frutto di una miriade di piccoli e grandi errori di supponenza e di miopia”.