Non me lo ricordavo, che era successo il giorno prima del mio compleanno. Diciannove novembre 2001. Diciannove anni fa. E dire che avevo cominciato a scrivere da poco, e dire che seguivo lei così come seguivo tutti i reporter di guerra dei principali quotidiani: Porzio di Panorama, Micalessin e Biloslavo del Giornale, e poi quelli del Corriere, Cremonesi, Battistini, e lei. Maria Grazia Cutuli. Così oggi quando ho aperto proprio il Corriere i due articoli che la ricordavano me li sono divorati. Che sanno di dolore che non si muove, ogni anno, che resta lì fermo, pesante, all'ultima foto, all'ultima telefonata, e non se ne va. Uno di Barbara Stefanelli, sua collega. L'altro di Carlo Verdelli, che allora era il suo vice direttore. La foto è una in bianco e nero incorniciata nel legno bianco, in cui ha la frangia ed è seduta con davanti il taccuino. La Stefanelli non è mai riuscita ad appenderla in un posto fisso e continua a spostarla. Come capita alle cose che non sai bene dove mettere, che rimandi e ti rimandano indietro i ricordi, i groppi in gola, il ghigno con le labbra. A me capita con la tshirt che mi regalò Simoncelli. Mai messa. Solo spostata. Quella foto, dice la Stefanelli, adesso è appoggiata sopra il calorifero in camera. «E mi fa sorridere vederti appollaiata lì, al mattino, perché ogni volta penso a quanto freddo avevi sempre: forse anche per questo volevi andartene verso Sud e verso Est, a levante». In Afghanistan, precisamente.
L'ultima telefonata invece è quella di Verdelli. Doveva tornare in Italia, Maria Grazia, dopo un paio di settimane passate tra Kabul e Jalalabad. Aveva appena pubblicato il suo reportage da una madrasa, unica occidentale capace di entrarci, raccontando cosa succedeva davvero nelle scuole talebane. Un bel colpo, soprattutto per chi era alla sua prima trasferta importante. Verdelli si complimentò, le chiese come stava e la informò che un collega stava partendo per darle il cambio. Dopo un lungo silenzio la Cutuli rispose così: «Ho compiuto gli anni, sai. Trentanove». E aggiunse: «Ti chiedo un regalo». Il regalo era restare lì per seguire la pista che l'avrebbe portata a entrare dentro un deposito di gas nervino in una base di Osama bin Laden. Ah, la passione che ti fotte. Quella per il giornalismo, come molte altre passioni, spesso ti salva, spesso ti porta dove non dovresti. Spiega Verdelli: «La conoscevo da quando in Mondadori, prima a Centocose e poi a Epoca, aveva cominciato a mostrare un’insofferenza crescente per tutto ciò che le impediva di dedicarsi a ciò che l’accendeva: precipitarsi dove la terra brucia, capire i fuochi, raccontare i tormenti della gente, le ferite, i dolori. Bosnia, Ruanda, Cambogia, Iraq. Se non ce la mandavano, era capace di prendersi le ferie e di andarci a spese proprie». Maria Grazia ottenne il regalo. L’ultimo articolo che ha scritto è stato proprio quello lì. Poi l'hanno fermata in una strada. Era in macchina con altri tre colleghi stranieri. È stata la prima a essere uccisa, così pare.
Verdelli ancora non se lo perdona quel regalo. E se lo porterà dentro. Magari ogni tanto lo sposta, come fa la Stefanelli con la foto. Ma non credo serva a niente. Adesso, vicino a Herat, c'è una scuola che porta il suo nome. Una scuola mista, uomini e donne, bambini e bambine. La Stefanelli si è promessa che appena potrà andarci andrà a vedere se c'è ancora. E poi, può darsi, quella foto un posto lo troverà.
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