Sono sul terrazzo di casa mia, mi chiama un collega. Dice che è in Ucraina. Dice che lo hanno colpito. Poco dopo la conferma. Andy è morto, il mio amico Andy
«La guerra, quando decide di essere uno schifo, lo è davvero. È il 24 maggio 2014. Sono sul terrazzo di casa mia, a Pianello, mi chiama un collega. Dice che è in Ucraina. Dice che hanno colpito Andy, Andy Rocchelli, il mio Andy. Andy che insieme a me ha messo a posto quel magazzino sfatto trasformandolo in Cesura. Andy, mio fratello Andy. Il collega mi dice che è stato ferito allo stomaco e che si trova in una zona difficile da raggiungere. Chiamo i ragazzi di Cesura e ci vediamo in studio: mille telefonate, comunicazioni, noi speriamo, speriamo... non sappiamo esattamente cosa sia successo, ma continuiamo a sperare. Andy è un gatto, ci diciamo, è sveglio, sul pezzo, quindi speriamo che in qualche modo sia riuscito a scappare. I genitori stanno arrivando da noi. Ma prima che ci raggiungano le notizie lo danno già per morto. Poco dopo la conferma. Andy. Il fratello Andy. Andy è morto. In Ucraina. Insieme al suo interprete Andrej Mironov.
Quando arrivai per la prima volta nello studio c’erano solo un soppalco, qualche sedia, e una piccola cucina a gas. Salito sul soppalco incontrai un ragazzo alto, i capelli rossicci, una barba stentata e una voce squillante. Portava uno smanicato di un’azienda edile, mi disse: «Bella zio», che suonava molto 90’s. Lui veniva da Pavia, aveva finito uno stage per Grazia Neri, non mi sembrava un fotografo. Anche perché io, di come fosse un fotografo, non avevo proprio idea. Tornavo da poco dall’Australia, mi mantenevo facendo tatuaggi. Da quel giorno passammo le giornate a trapanare, tagliare assi e pitturare muri, non proprio le mansioni che si pensa di fare quando lavori per uno dei nomi di punta della Magnum. Ma col senno di poi forse la miglior gavetta che si possa sperare. A me e a Andy non pesava far andare le mani, siamo sempre stati tipi concreti. Legammo molto tra uno sbattimento e l’altro. In studio pulivamo gli allumini su cui si montavano le foto per le mostre di Alex, andavamo a recuperare tavoli, smaltire la spazza (come la chiamava lui). Non avevamo una lira, lavoravamo gratis e litigavamo un botto. Una volta avevo fatto la spesa e cucinato una pasta panna e salmone, una di quelle paste da ricchi per il nostro tenore di vita. Gli chiesi di darmi i soldi prima di mangiare, con il cibo pronto nel piatto, perché spesso chi anticipava il cash non aveva speranze di recuperarli. Nacque una discussione, mi spinse il piatto nella mia direzione con disprezzo. Io lo presi e glielo tirai dietro... Era così, nessuno dei due voleva mai mollare, nessuno dei due voleva mai arretrare o darla vinta all’altro. Forse è per questa determinazione che siamo finiti a fare i fotografi di guerra. La sera, dopo aver mangiato la solita pasta al pomodoro, prendevamo i negativi dal grosso banco frigo, che Andy aveva recuperato in discarica (la nostra Ikea) e guardavamo i provini a contatto leggendo quelle immagini a una a una, cercando di capire come si muovesse l’occhio del maestro, studiavamo i vari libri di Capa, McCullin, Nachtwey, ma anche Winterreise di Luc Delahaye, una di quelle opere che hanno cambiato la storia della fotografia. Avevamo fame, avevamo voglia. Incominciammo a viaggiare e fotografare il mondo che ci circondava. Tornavamo in studio e condividevamo le nostre esperienze. Ci raccontavamo come eravamo riusciti a entrare in una situazione, o come ne eravamo scappati. Parlavamo tutto il giorno di foto, mangiavamo in mezzo alle foto, dormivamo sulle casse delle foto, le strappavamo, le montavamo, le spedivamo, le scontornavamo, le perdevamo, le scambiavamo. Anche in bagno era pieno di foto. In quel periodo con lui, Alessandro Sala, Arianna Arcara e Luca Santese, si è creato qualcosa di unico e irripetibile. Cesura appunto... L’idea era basata su concetti semplici ma precisi: il gruppo è una forza, la diversità una risorsa. La finalità, produrre buone fotografie, storie di qualità, ed essere indipendenti sempre. Praticamente un manifesto anarchico della fotografia... E così è stato. Ci chiamavamo il Dark Side of Photography. Ci rispettavamo, ci aiutavamo, ma tra noi c’era competizione, quella sana, quella che ti spinge e fare meglio tutti i giorni. Non recupererò mai quei 3 euro della pasta panna e salmone...
Nel salutarlo, prima che partisse, gli avevo fatto una battuta che mi potevo risparmiare: «Oh, torna con le foto, oppure non tornare»
Andy non era come me. Lui era più giornalista ed era già stato diverse volte nell’Est Europa, in Cecenia, in Russia, nei Paesi confinanti, posti disperati, documentando guerre fredde già finite. Con lo scoppio della Primavera araba era stato prima in Tunisia e poi in Libia, facendo anche grandi foto. Aveva rischiato tante volte anche lui ma gli era sempre andata bene. Una delle foto più rappresentative di quelle rivolte è sua: quella di un ragazzo che corre sparando in aria in mezzo alla folla urlante. Nel 2014 a Kiev era andato con Andrej Mironov. Andrej, nei suoi sessant’anni, aveva fatto mille guerre, era un dissidente e un genio: sapeva qualcosa come dodici lingue. Le parlava tutte. L’italiano lo aveva imparato dal volgare, da alcuni libri trovati in una biblioteca antica. Erano molto affiatati, tanto che Andy lo aveva portato anche a Milano e una sera, davanti a un locale, gli avevo fatto pure un ritratto insieme, loro due, bellissimo.
Quella sera mi avevano detto che gli era stato assegnato un lavoro nella zona di Donbass, in Ucraina. Mironov era davvero in gamba. Andy, che non faceva mai credito a nessuno, lo stava spesando. La cosa mi aveva colpito perché Andy era abbastanza tirchio, ma mi aveva spiegato che lo faceva perché in Mironov aveva riconosciuto il fuoco sacro. Nel salutarli sul soppalco di Cesura, prima che partissero, avevo fatto a Andy una battuta che mi potevo risparmiare: «Oh, torna con le foto, oppure non tornare». Con gli altri di Cesura ci riuniamo per decidere chi accompagnerà la famiglia. Ci andremo io e Luca. La responsabilità mi tiene al riparo dal dolore di aver perso un amico, un fratello. Devo essere forte. Devo sorreggere i suoi genitori. Noi siamo reporter di guerra. Reporter. Di. Guerra. Sappiamo che queste cose fanno parte del nostro lavoro. Sappiamo che morire è una eventualità pari a quella di fare una buona foto. Può non succedere, ma può anche succedere. Siamo samurai che accettano la pioggia. Siamo in missione, anche se qualcuno può dire che ce la tiriamo. Ma intanto ci siamo noi sotto le bombe, ci siamo noi accanto ai razzi, ci siamo noi dietro ai combattenti e a volte anche davanti o in mezzo, ci siamo noi a rovinare le giornate di chi vorrebbe solo leggere giornali di gossip o scoprire di cani che ritrovano i padroni dopo anni. Ci siamo noi e le nostre macchine fotografiche, i nostri elmetti, i nostri giubbotti antiproiettile, ci siamo noi, e poi tocca ancora a noi andare a riconoscere gli amici, a portarli fuori da posti di schifo così di schifo che è impossibile credere in Dio, perché nessun Dio avrebbe mai potuto farsi venire in mente luoghi così disperati, così senza vita, così anti vita, e tocca a noi perché noi, in anni di guerre, abbiamo coltivato relazioni, interiorizzato usi e costumi di altre culture, imparato a parlare lo stesso linguaggio dei burocrati delle zone di conflitto, o peggio ancora dei criminali, siamo noi che sappiamo come tirarci fuori da situazioni irrecuperabili, siamo noi che sappiamo misurare tempi modi parole e capiamo cosa dire quando dirlo e come dirlo. Non i genitori, non gli amici, non i parenti. Siamo noi. Gli altri reporter di guerra.
Noi siamo reporter di guerra. Reporter. Di. Guerra. Siamo samurai che accettano la pioggia
Quindi io e Luca voliamo con la famiglia a riconoscere e a prendere il corpo per riportarlo a casa. Durante il volo il silenzio è totale. Quando non c’è il silenzio, c’è il pianto della madre, che è peggio del silenzio. A Donetsk l’atmosfera è tesa. Mi accorgo di essere pedinato da loschi figuri, forse dell’intelligence ucraina. Ho paura che ci succeda qualcosa. Arriviamo all’obitorio, e chiedo di essere il primo a entrare. Guardo Andy, è pieno di sangue e cicatrici. La scheggia gli ha strappato l’aorta. Non piango. Non urlo. Ho sempre pensato che sarei morto prima io di lui. Ho visto tanta gente morire, cadaveri, situazioni che stringono lo stomaco. Ma non mi hanno mai fatto troppo effetto. Però vedere così un amico, quasi un fratello, mi strappa un pezzo di cuore. Uno di quei pezzi che non si rimargina più e brucia per sempre. È lì, davanti al suo cadavere, che penso che non smetterò mai di andare in guerra. Glielo prometto: never give up, fratello Andy. Mai.
Adesso a Pavia c’è una piazza intitolata a lui. Immagino le mamme con i passeggini, i padroni con i cani al guinzaglio, i ragazzini che limonano su una panchina sotto alla targa che celebra Andy
Faccio finta di non sentire niente. Di non avvertire dolore, tristezza, panico. Niente. Perché i genitori aspettano di vederlo, e come lo vedranno dipende da me. Mi avvicino all’infermiere e gli allungo un pezzo di carta piuttosto alto, chiedendogli di nascondere i tagli e di truccarlo al meglio. Si chiama Tanatoprassi. Il giorno dopo rientriamo tutti insieme nella stanza. Per me, per noi, Andy era un grande amico, un socio. Ma non era un figlio. Per la famiglia è la fine di tutto. Mi faccio forza per dare forza. A loro, a Cesura. Il padre di Andy è come di ghiaccio. La madre si mette a piangere, la sorella è molto forte. Mariachiara, la sua compagna, schiacciata. Poco dopo aver riportato il corpo in Italia con un volo di Stato sono arrivati anche tutti i suoi effetti personali: il computer, gli hard disk, altri oggetti. Inizialmente li abbiamo tenuti noi, poi li ha voluti la famiglia e infine sono finiti ai Ros dei carabinieri, che li ha sequestrati a lungo per le indagini. Ma, dopo qualche mese, guardando tra le sue cose che ci erano state restituite, trovo un sacchettino che non avevo mai visto: un portabatterie, morbido, con la cerniera a pressione. Dentro c’erano delle schede. Le metto nel pc, sono piene di materiale inedito. Deve averle trovate il custode dell’obitorio, messe nel sacchettino e rispedite direttamente ai carabinieri. Ho subito chiamato gli altri. C’erano le foto dell’attacco. Una foto di Andrej Mironov con dietro l’esplosione di un mortaio. Perfino un video dove si vedono i loro corpi, girato da chissà chi. Quel sacchettino diventa il mio talismano. Lo tengo nella tasca interna di qualsiasi giubbotto. Altezza costole, a sinistra, sotto il cuore. Andy sempre con me. Dopo aver visionato tutto il materiale decido di tornare in Ucraina da solo. Voglio capirne di più. Mi accompagna Piotre, un giornalista freelance italiano che avevo conosciuto nel viaggio precedente. Fa freddo. Piotre parla russo, e andiamo prima a Donetsk e poi a Slov’jans’k, dove hanno ammazzato Andy. Lì accarezzo il sacchettino portafortuna e scrivo un messaggio sul palo della luce: «Ti ricorderemo per sempre, i tuoi amici, la tua famiglia, Cesura». Osservando il posto capisco subito la dinamica dell’incidente, perché vedo i buchi sui muri e com’erano le schegge. Da quello che riesco a ricostruire è andata così. Quando erano in Ucraina, Andy e Mironov avevano cominciato coprendo la rivoluzione in centro a Kiev, e poi, appena scoppiata la guerra, si erano mossi nel Donbass, dove era in corso una battaglia tra ucraini e filorussi. Mironov era russo e tra i suoi connazionali aveva molte entrature, però era un antiputiniano per eccellenza, quindi stava sicuramente vivendo una situazione ambigua. Devono aver ricevuto una chiamata: stava succedendo qualcosa che valeva la pena andare a vedere sul confine, a Slov’jans’k. Arrivano, c’è un treno distrutto che è stato posizionato lì, fermo, per non far sfondare i carrarmati e impedirgli di entrare in città. La zona è abbastanza off limits, ma a loro avevano detto che ci potevano andare. Scendono dalla macchina e non c’è niente. Scattano qualche foto e a un certo punto l’esercito ucraino, da una collinetta a due chilometri di distanza, inizia a sparargli addosso. La macchina con cui erano arrivati lì è stata trovata trivellata di colpi. Si buttano nella radura, ad aspettare che passi il peggio. C’è con loro anche William Roguelon, un ragazzo francese. Poi iniziano i colpi di mortaio: uno, due... e Andy continua a fare foto, ci sono tutte le foto sue finché non lo ammazzano. Quei bastardi hanno continuato finché non li hanno uccisi. Roguelon, ferito per primo, sviene. Quando si sveglia vede che c’è Andy per terra e Andrej senza testa. Andy si muove un po’, ma Andrej è proprio morto decapitato. L’autista che è con loro corre su, prende la macchina, fa inversione e scappa. William cerca di fermarlo ma non ce la fa e rimane lì, nella radura, a piedi. L’esercito o i ribelli continuano a sparare in aria, lui è traumatizzato, è ferito alle gambe, ma riesce comunque a muoversi, a raggiungere un’auto e a farsi portare in ospedale. Da lì inizia la trafila in cui riesce a prendere l’ultimo aereo per Kiev, per poi rientrare in Francia. Dal governo aiuto zero: si è dovuto pagare tutto da solo. Andrej e Andy invece restano là, a terra. Andy è ferito all’aorta giugulare da una scheggia e muore poco dopo. Ha un’altra scheggia nella mano, ma la prima lo ha colpito proprio in un punto mortale. Mi fa strano. Perché Andy era insieme ad Andrej, che conosceva benissimo quei posti e quella gente, era una mente superiore, difficile pensarli vittime di un’imboscata del genere. Molto difficile.
Dalla morte di Andy cambiano le dinamiche con la stampa. Nessuno ci aveva mai considerato prima di allora, ma da quel momento in poi tutti diventano nostri amici: «Ah, Cesura, Cesura... Quelli di Cesura sono degli eroi». Anche nel paese in cui viviamo, Pianello, riceviamo una botta mediatica incredibile. Chiunque capisce finalmente che cosa facciamo, chi siamo, come lavoriamo. Adesso a Pavia, la città di Andy, c’è una piazza intitolata a lui. Immagino le mamme con i passeggini, i padroni con i cani al guinzaglio, i ragazzini che limonano su una panchina o che si passano una canna sotto alla targa che celebra Andy Rocchelli, mio fratello. Ed è una delle poche cose che mi fa venire il magone, perché dietro quella targa ci sono sentimenti vissuti affetti conoscenze esperienze in terre senza salvezza, aride, con al massimo un ultimo pezzo di cielo da fissare anche solo per un attimo. Quella targa mi convince ancora di più che gli eroi servono a tutti ma poi tutti se li dimenticheranno, diventano nomi e cognomi che non vale la pena ricercare manco su Wikipedia. Alla fine è solo una vita».
IN GUERRA, vita e battaglie del fotoreporter sopravissuto a un razzo dell'Isis, Cairo editore.
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