Non lo so se le loro vite si siano mai incrociate. Sicuramente sì, nel lavoro; ma non so se abbiano mai condiviso qualcosa di più, di più intimo e più personale, fuori dalle redazioni o dagli eventi legati al motorsport. Di sicuro, però, adesso hanno condiviso quanto di più intimo c’è nell’essere uomini: la morte. E c’è qualcosa di magico, nonostante la tristezza di certe notizie, quando il destino intreccia così carriere, passioni comuni e sorte. La cronaca è così: Carlo Perelli e Nestore Morosini sono morti, uno a 87 anni, l’altro a 83. Per entrambi c’ha messo lo zampino il Covid-19. La cronaca: secca e spietata. Oltre la cronaca, però, c’è l’umanità: sono morti oggi due narratori della velocità, quasi insieme, chiudendo probabilmente un capitolo che resterà eterno su quel modo di raccontare storie di uomini, di moto e di macchine veloci. Quel modo e quel mondo che non c’è più da un po’. Che non potranno esserci più.
Motociclismo uno, il Corriere della Sera l’altro; due ruote uno, quattro l’altro, interpreti perfetti di un’iconografia del giornalista professionista che, appunto, oggi è solo immagine che attiene al passato. Non per colpe, per carità, ma perché tutto ha altri tempi, altri interessi e, nessuno me ne voglia, anche altri lettori. Però che prima era meglio non ci vuole un genio a vederlo, semplicemente come presa d’atto, come dato di fatto, senza alcuna retorica e anche senza nessuna sfiducia del futuro. I “ciao maestro” che leggo in giro oggi, invece, ne sono pieni. Ma non è il giorno delle polemiche e nemmeno delle analisi su chi siamo (i giornalisti) e dove stiamo andando (i giornali). E’ vero: moriremo tutti un giorno, ma nessuna morte ha mai fermato il mondo. Però per chi il mondo l’ha visto e l’ha girato dentro il filtro di cilindri, pistoni e storie di coraggio, a fermarsi sono i motori. Che è la stessa cosa. Carlo Perelli e Nestore Morosini, oggi, li hanno in qualche modo fermati: nelle parole, nei ricordi, nella commozione di tutti quelli che hanno speso una frase, raccontato un aneddoto o, più semplicemente, dedicato un pensiero al passato.
Quale? Quello di tutti noi che prima di andare a scuola la mattina passavamo in edicola e pronunciavamo la fatidica domanda: “E’ arrivato Motociclismo?”. Magari sapendo che no, non era arrivato, perché l’ultimo numero era uscito appena una settimana prima e l’avevamo già divorato, dovendo aspettare così le tre successive per stringere tra le mani il corposo figlio di carta profumatissima di Carlo Perelli, pieno zeppo com’era di eroi col casco in testa e tutte le moto del mondo. Oppure l’automobilismo e la Formula1, raccontata sulle pagine del Corriere della Sera per quelli un po’ più grandi, o nei libri e nelle interviste per quelli un po’ più giovani. Interviste e racconti che avevano per firma Nestore Morosini e, con lui, protagonisti, Villeneuve, Lauda, Hunt, il Cavallino, i piloti venuti dopo e Enzo Ferrari, di cui era uno dei pochi giornalisti amici davvero (nonostante il loro rapporto fosse iniziato con un telefono chiuso in faccia). Professionisti che avevano saputo fare della loro passione un impulso di narrazione e della loro penna una prosecuzione del corpo e uno strumento che, da solo, doveva saper fare il lavoro che oggi fanno scritti pubblicabili istantaneamente, foto, filmati, video, televisioni, social, chat, smartphone, fibre ottiche e bande larghe.
Non se ne vanno due maestri, perché chiamare qualcuno “maestro” significa sentirsi degni di considerarsene allievi e, oggi, di allievi in giro non ce ne sono. Non perché non c’è qualità umana e professionale, ma perché non è più quel mondo e quel giornalismo. Se ne vanno, quindi, due che ci hanno fatto stare bene - che vale molto di più di improbabili titoli – e che ci hanno regalato pagine indimenticabili che hanno sfamato la nostra passione, attraverso la loro di passione. Accompagnando tutti quelli che sono cresciuti a pane, scritti e motori. Qualche giorno fa, non mi ricordo dove, ho letto che il Covid19 ci sta portando via la generazione migliore, quella che aveva preso un Paese in ginocchio dopo la guerra e l’aveva curato a schiena piegata, fino a vederlo rifiorire. Non avevo dato molto peso a quella frase, poi, oggi, leggo che il Covid19 s’è preso pure Carlo Perelli e Nestore Morosini e ho ripensato a quelle parole. Erano maledettamente vere, cazzo! Stiamo restando orfani di vite e di storie.
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