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Siamo tutti Andrea Dovizioso

Emanuele Pieroni

16 agosto 2020

Quando dai tutto e non torna niente, quando fai la legna e gli altri si scaldano, quando ti metti sulle spalle un peso e ti si chiede ancora e ancora... nelle relazioni, nel lavoro, nelle cose di tutti i giorni che si trascinano fino a consumarti il fegato. Andrea Dovizioso è la metafora di tutti quelli che "devono sempre e basta". Ma un conto è non essere Varenne, un altro è accettare di farsi trattare da mulo

di Emanuele Pieroni Emanuele Pieroni

Siamo tutti Andrea Dovizioso. O, almeno, dovremmo imparare ad esserlo. Lo siamo stati spesso, a volte o una volta sola nelle più svariate circostanze. Nelle relazioni, sul lavoro, nelle cose che si trascinano fino a calpestare la dignità. Lui, Dovizioso, come abbiamo già avuto modo di dire, il dovere ce l’ha nel cognome e lo ripetiamo:  deve sempre il Dovi! Ma a un certo punto anche basta. E con quei modi lì, quei toni bassi lì, quella capacità di non essere mai estremo, ha girato i tacchi e detto ciao, senza rinnegare niente di otto anni che sono stati pazzeschi. Ringraziando pure, ma senza metterci quella vena di politichese. Con il cuore ha guidato la Ducati, forse anche sopra al suo stesso talento, e con il cuore l’ha lasciata.  Ha fatto meglio di tutti - tranne uno una volta sola (quel Casey Stoner che ieri, primo fra tutti, verso Ducati non è stato per nulla leggero, prendendo apertamente la posizione di Dovizioso), ma non è bastato. E siamo tutti un po’ Andrea Dovizioso. Perché ci è capitato mille volte di non vedere riconosciuti gli sforzi, di essere trattati come quelli bravi ma non bravissimi nonostante il confronto dei numeri risultasse impietoso. E’ capitato a tutti di darsi da fare anche oltre le proprie forze e pure oltre le proprie capacità, spaccarsi la testa (o la schiena che sia), tirando la carretta come fanno i muli e poi, una volta in cima e con la lingua di fuori, ritrovarsi allo stremo delle forze con la consapevolezza che i cavalli non hanno fatto un cazzo, al contrario dei muli, ma hanno preso le carezze, al contrario dei muli. Possono rifocillarsi, al contrario dei muli che invece devono ripartire per un altro carico, un altro viaggio.

Andrea Dovizioso non è un somaro. E non è nemmeno un mulo. Probabilmente non è Varenne, e su questo posso anche concordare, ma è un cavallo di razza che ha fatto il mulo per otto anni e che, adesso, s’è altamente rotto le palle. Non di fare il mulo, ma di essere trattato da mulo. Ecco perché mi infastidisce la malizia di chi pensa che l’ormai ex ducatista ha già un piano b. Non ce l’ha: s’è rotto le palle e basta. Perché, secondo i più, da tre anni arriva secondo nel mondiale non grazie a lui, ma a causa sua. E se ne avesse vinto uno di quei mondiali, sarebbe stato perché aveva la moto più forte, mica perché se l’era meritato. Sempre tutti bravi a parlare con chi tiene la testa bassa come un mulo, mentre i cavalli passano incensati, ammirati per il portamento: loro, i cavalli, che sulla groppa non portano niente di niente se non la presenza. Ma adesso Andrea Dovizioso, come tutti noi mille volte, s’è semplicemente reso conto che a furia di comportarsi da mulo - sperando che si riconosca almeno la fatica se non il risultato - si finisce per essere trattati da muli. Si finisce che il cavallo della stalla a fianco prende il fieno migliore e in quantità quintuplicate. E ha pure il diritto di lamentarsi, andare via ed essere rimpianto, mentre il mulo deve mangiare e zitto, possibilmente ringraziando anche e tenendo bene a mente di non dover avanzare pretese. Però l’ha amata tanto la Ducati, dopo averla presa per mano e averla resa quasi docile, dopo aver ereditato il fardello pesantissimo di un ferro che andava forte solo nelle mani di Stoner (ma una volta sola) e su cui prima, durante e dopo, avevano fallito tutti. Ci ha fallito anche il Dovi? Forse, ma meno di tutti, e doveva bastare.

Non è bastato e lui, non altri, ha detto basta. Chapeau!  Siamo tutti Andrea Dovizioso.  Dovremmo anche imparare a essere Andrea Dovizioso pure nell’epilogo. Trovando la forza di chiudere i conti che vanno chiusi: nelle relazioni, sul lavoro, nelle cose che si trascinano fino a calpestarci il fegato. Dimostrando che mulo è chi non sente (o finge di non sentire) e ha la testa dura, non certo chi si spacca la schiena accollandosi i carichi più pesanti senza fiatare. Testa bassa e andare avanti, ma fino a un certo punto. Non si fanno le cose per una contropartita, ma se la contropartita arriva lo stesso ed è sempre e solo ulteriori carichi e considerazione da mulo, allora è ora che basta. Perché anche se l’amore - verso il/la partner, verso quel lavoro, verso quella cosa che si trascina - è invariato, anche se ha la stessa potenza di sempre, quando non basta la risorsa che uno ci mette, anche se ce la mette proprio tutta, si finisce con lo sconfinare.  Esattamente come con i soldi quando si va sotto sul conto corrente. Solo che nei rapporti – di cuore, di amicizia, di lavoro o di vita quotidiana – lo sconfinamento non è un debito con la banca, ma con la propria dignità.  Un debito pericolosissimo e che si estingue con una sola formula magica che inizia per “vaffa” e finisce per “nculo”… se non sei un signore. Se invece sei un signore o, meglio, un cavallo di razza, e ti chiami Andrea Dovizioso, quella formula magica si trasforma in queste parole:  “Era una decisione da prendere, non è stata comunque una scelta di ‘pancia’, ma ponderata. Ho un mix di sensazioni, indipendentemente da quello che è successo abbiamo avuto la fortuna di vivere momenti memorabili, fantastici, bisogna guardare tutto quello che è stato fatto. Ho la stessa voglia di correre degli ultimi anni, vedremo se ci saranno proposte interessanti. Ho la fortuna di non dover trovare per forza una moto per il prossimo anno. Sono molto rilassato sotto questo aspetto: se non lo fossi stato, probabilmente, avrei anche accettato una proposta non ottima da Ducati. Ma non è questo il punto”. Un vaffa da cavallo di razza …da copiare!

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