La frase vera recita “c’è una crepa in ogni cosa ed è da lì che entra la luce”. Non so di preciso di chi sia, ma era nella dedica della tesi di mio fratello qualche anno fa, in un momento in cui le crepe (quelle vere) erano ovunque intorno agli occhi di chi viveva nelle Marche, nel Lazio, in Abruzzo o in Umbria. Crepe sui muri, almeno dove i muri c’erano ancora. Sono segni che uno impara a riconoscere: le crepe. Perché è vero che non promettono nulla di buono, ma spesso rendono anche la misura della speranza: è guardando le crepe che si individuano gli interventi da fare. Certo, quella frase - sia per chi l’ha scritta la prima volta, sia per chi l’ha utilizzata poi come dedica alla sua città distrutta - aveva sicuramente un significato più profondo di quello che interesserebbe ad un architetto, un ingegnere o un geometra.
Sono passati quattro anni o giù di lì da quei giorni e sono esattamente quattro anni o giù di lì che se penso alle crepe penso a Danilo Petrucci. E, non ho alcun problema ad ammetterlo, sono anche quattro anni o giù di lì che Danilo Petrucci da Terni è quello verso il quale non riesco ad essere mai abbastanza lucido. Perché sono quattro anni o giù di lì che Danilo Petrucci da Terni e con il numero 9 sul cupolino si presentò a Misano con un casco pieno proprio di crepe, dove campeggiava una scritta: “Scossi ma uniti”. Lui, un po’ per origini, un po’ perché ha un cuore della madonna, aveva avuto un pensiero per quel pezzo d’Italia che soffriva. Altri, altrettanto vicini, non l’avevano fatto o se lo avevano fatto non era stato in maniera nota. Scelte, per carità, e davvero nessunissima polemica.
Però Danilo Petrucci da quel momento è diventato la seconda domanda del weekend per due figli: “Papà, c’è la MotoGP nel fine settimana?”. E se la risposta è affermativa, la domanda successiva è automatica: “Petrucci come sta messo, può vincere?”. Il resto, probabilmente, lo ha fatto la cadenza ternana, così sgraziata e goffa da far sentire meno solo chi è maceratese. Ci vuole poco a entrare nel cuore. E ci vuole ancora meno a occuparlo quel cuore se ti chiami Danilo Petrucci e hai la storia di Danilo Petrucci, la crepa. Perché lui è uno che non c’entra niente di niente con il motomondiale e questo è evidente come è evidente una crepa nel muro. Ma, appunto, è da lì che entra la luce. Lui nel giro delle corse in moto c’era entrato da ragazzino, ma sedendo sul camion che il babbo, Danilo senior, portava nei paddock di mezzo mondo. Era l’autista di Loris Capirossi e in quel ragazzino moro si accese un sogno. Sognare, ma non toccare. Perché quel mondo lì non era mica alla portata di uno così, di uno che aveva sì un nonno (tra l’altro scomparso di recente) importante e che avrebbe potuto aiutarlo, che veniva sì da una città di grande tradizione motoristica, ma che non avrebbe certamente potuto contare sulle opportunità di tutti gli altri. E nemmeno su un talento che probabilmente c’era, ma era tutt’altro che evidente. La moto per Danilo Petrucci è stata, prima che una passione grande, uno strumento per dimostrare che l’unico vero talento sta nel coraggio di crederci e nella forza di insistere.
Quando c’è qualche evento a cui partecipano i piloti in abiti civili, quando, insomma, non sono riconoscibili grazie a tuta, stivali e guanti, Danilo Petrucci sembra il buttafuori degli altri. Non ha la faccia del pilota e nemmeno il fisico. Figuriamoci i modi. Questo nella sua storia gli è costato, perché è stato sempre uno che ha dovuto dimostrare: uno che intorno, tolte le poche persone di una cerchia ristretta, ha avuto sempre e solo sfiducia. Uno che non ha potuto fare la trafila di tutti e che è arrivato in sella alla moto più ambita del mondiale passando dalle porte che non utilizza mai nessuno e che per questa ragione si aprono a fatica. Uno che fino a poco più di cinque anni fa campava con lo stipendio della squadra sportiva della Polizia di Stato, correndo sotto quei colori. Con l’effetto di essere accolto - più che dai “benvenuto” - da ben meno gradevoli “ma tu da dove te ne esci?”. Tutti pronti, sempre e anche dentro al suo team, a dargli del sopravvalutato, come se occupasse il posto di qualcun altro, a puntare il dito contro un carattere che magari tende troppo ad accusare i colpi. Ad abbattersi. Ma questa cosa qua, in fondo, non è altro che “umanità” ed è ciò che ci rende speciali. Danilo Petrucci lo vedi dal sorriso del venerdì: se c’è farà bene, se non c’è e tiene gli occhi verso il basso sarà una domenica da dimenticare. Non sarà da pilota, ma è umanità.
Non so se posso dirlo e se non potevo me ne scuso, ma fino a qualche tempo fa sul suo stato di WhatsApp c’era scritto: “Piccoli passi verso grandi sogni”. Adesso, invece, c’è “Le opportunità sono infinite se non si ha paura”. Due sintesi perfette di una vita e di una storia personale che andrebbe raccontata ai figli quando li si mette a letto. Magari proprio stasera, spiegando che oggi, per la seconda volta nella sua carriera e nell’annata professionalmente più triste per lui, quel pilota che sembra il buttafuori dei piloti “veri” ha messo le ruote davanti a tutti, prima di portarsi l’indice davanti alla bocca e al naso per far capire a chi ha sempre qualcosa da ridire che la risposta a chi ci mette più cuore e più determinazione deve essere sempre e solo un ammirato silenzio.