Siamo abituati a vederli come dei supereroi, dei cavalieri del rischio in sella a destrieri in fibra di carbonio. Ma anche i piloti di Formula 1, nel privato, hanno le proprie debolezze. E non tutti hanno il coraggio di mostrarle. Soprattutto nel caso, più frequente di quanto si possa pensare nel mondo dello sport, in cui si tratti di fragilità legate alla salute mentale, di cui oggi si celebra la giornata mondiale. Il perché è presto detto: il pubblico, nonostante si siano fatti passi da gigante nel ridurre lo stigma connesso a questo tipo di problematiche, spesso ancora fatica ad accettare gli sportivi per gli esseri imperfetti che inevitabilmente sono.
I semidei del mondo moderno sono ricchi, mietono successi, hanno a disposizione tutto quello che molti possono solo desiderare da lontano. Per questo chi nella vita ha difficoltà di altro genere fatica ad accettare quelli che, uscendo dalla bocca di un privilegiato, suonano come dei piagnistei. Quando uno sportivo ammette di aver sofferto di ansia o depressione, in molti storcono il naso. Vorrebbero vederli, questi campioni strapagati, messi di fronte alle difficoltà della vita di tutti i giorni, come chi fatica a tirare fine mese. La salute mentale sembra un capriccio da bimbi viziati, che hanno tempo di preoccuparsi di cose futili.
Non potrebbero essere più lontani dalla realtà, però: l’ansia e la depressione – tanto per fare due esempi di un mondo caleidoscopico, tentacolare - sono dei tarli che corrodono nel profondo. Sono apparentemente invisibili, ma lasciano dei solchi che, senza l’aiuto di un professionista, non possono rimarginarsi. Chi non ne ha mai sofferto non può sapere cosa voglia dire sentirsi prigioniero della propria mente, rinchiudersi in un bozzolo sempre più soffocante per ridurre ad una singolarità una sofferenza che bisognerebbe invece lasciare andare, perché è proprio il fatto di rimpicciolirla all’infinito che la rende un peso insopportabile.
Ne sa qualcosa, tanto per fare un esempio al di fuori dalla F1, la stella dell’NBA, Kevin Love, che, dopo un attacco di panico inesorabile e dolorosamente umiliante durante una partita, ha cominciato un duro percorso che gli ha dato la forza non solo di ricominciare a risalire dal baratro della depressione, ma anche di parlarne senza tabù, nella speranza che condividere la propria esperienza potesse anche salvare solo una persona da un tunnel dal quale, senza avere la forza di chiedere aiuto, non si può uscire.
E lo sa anche Lando Norris, il simpaticissimo, trascinante Norris, che ha ammesso di aver sofferto di ansia durante il suo primo anno da rookie con la McLaren. Sembrava essere sicurissimo di sé, sfrontato come solo un ventenne può essere, e invece era consumato nel profondo dalla convinzione di non essere abbastanza, di non meritarsi il posto che aveva ottenuto con le unghie e con i denti. Chiamasi sindrome dell’impostore: ci si convince di trovarsi per miracolo in una posizione di prestigio. Non bastano le continue prove del contrario. Ci si sente fuori posto, ed è un supplizio.
Lando ne è uscito con l’aiuto di un professionista, intraprendendo un percorso che avrebbe potuto tenere segreto. Ne ha voluto parlare, invece: ed è qui che esce la vera forza, quella di mostrare le proprie debolezze più recondite. Difficoltà quasi invisibili, ma invalidanti come dei problemi fisici. Sui quali nessuno avrebbe nulla da ridire. Quando c’è la mente di mezzo, invece, è tutto più sottile. Ma non per questo più semplice da dissipare, anzi. Quindi ben vengano dieci, cento, mille cavalieri del rischio che trovano il coraggio di mostrare i loro lati più intimi. Perché anche questo è coraggio, che ne dica chi una situazione del genere, per fortuna, non l’ha mai vissuta.