“La vita non è in ordine alfabetico come credete voi. Appare. Un po' qua e un po' là, come meglio crede. Sono briciole, il problema è raccoglierle dopo: è un mucchietto di sabbia. Non resta altro che farci ghirigori col dito, degli andirivieni, sentieri che non portano da nessuna parte. E dai e dai, stai lì a tracciare andirivieni. E poi un giorno il dito si ferma da sé, non ce la fa più a fare ghirigori, e sulla sabbia c'è un tracciato strano: un disegno senza logica e senza costrutto. E ti viene un sospetto, che il senso di tutta quella roba lì erano i ghirigori”. E’ un passaggio, anche tagliuzzato, di Antonio Tabucchi, infilato all’interno di un manuale sull’esistenza a cui sono stati messi addosso i panni umili di un semplice romanzo: Tristano Muore. Funziona così un po’ sempre: le lezioni che contano stanno spesso in ciò che si pone in maniera semplice anche quando straborda di sostanza. Come, insomma, Danilo Petrucci, l’Ulisse di Terni e delle corse che, a 35 anni compiuti, è partito per un altro viaggio dopo aver creduto, e aver fatto credere a tutti noi, di essere finalmente tornato alla sua Itaca.

No, Ducati non era Itaca e c’è voluto un po’ per capirlo. Ducati è stata un pezzo dell’avventura anche quando sembrava solo maledizione e meta. Itaca, a quanto pare, non è un luogo e non può essere un grande amore, Itaca, per chi è Ulisse più di Ulisse, è la propria anima. Che risponde all’istinto di andare per ritrovarsi. Crescere, Sostanziarsi. Magari anche ferirsi e riprovarci. Sopra un’altra moto, dento un altro mondo, attraverso il deserto, in mezzo a un paddock in infradito e bermuda dopo una vita tra quelli della divisa giusta pure per andare in bagno. Con la sfida, adesso, di andare pure a conquistarselo quel paddock senza la paura di salire su una moto che è andata forte con uno solo che adesso è pure volato di là dove servono le divise. Sì, Danilo Petrucci non ha rifiutato Ducati e Barni e non ha nemmeno scelto BMW: Danilo Petrucci ha semplicemente risposto all’istinto di andare verso la propria anima. Che è quella lì: l’anima di uno che sente il dovere di provarci sempre. E che non saprebbe vivere diversamente. Sì, ok, guadagnerà cifre che in Barni non avrebbe mai potuto guadagnare, avrà visibilità maggiore e un blasone inevitabilmente superiore. Ma c’entra niente di tutto questo rispetto alla scoperta di volersi mettere ancora in mare, in barba a ogni possibile naufragio. Contro gli Dei e contro la paura.
Danilo Petrucci non va via da Itaca, ma riprende il mare verso la vera Itaca. Anche se il mare a Terni non c’è mai stato se non come prospettiva di qualcosa di immenso davvero oltre le colline tutte intorno. Ecco perché, oggi, tanti commenti sull’ingratitudine, sul negativo del non accontentarsi, sull’aver guardato solo i soldi fanno oggettivamente paura rispetto all’ennesima sfida di un ragazzo che ormai non è più tanto ragazzo, ma che ci ha messo il doppio in tutto. A volte anche il triplo di quello che ci mettono quelli che la strada l’hanno vista sempre un po’ meno ripida. Chiamatelo paradigma esistenziale, chiamatela liturgia dell'essere, anche se la verità è che sarà solo un’altra bella storia firmata da Danilo Petrucci. A prescindere da quale sarà il finale. Perché, proprio come scriveva Tabucchi, “il senso sono i ghirigori”. Il girovagare, appunto, verso l’isola di fronte o verso un nuovo mare aperto, per vedere fin dove si può arrivare. E, soprattutto, con quanta forza. Scoprendo il gusto di misurarsi non contro gli avversari, ma contro la comodità di considerare Itaca qualcosa che, in verità, non era Itaca. Anche se le somigliava da matti. Anche se si stava bene davvero. Come dimostrano, per Danilo Petrucci, due occhi che sembrano godersela solo un po’ nella foto dell’annuncio del contratto firmato con BMW, quasi a portarsi dentro tutto quello che si lascia. Che non è rammarico, ma, semmai, riconoscenza per ciò che si è condiviso.

La grandezza di Ulisse stava nella capacità di trasformare tutto in un qualcosa per cui sarebbe valsa la pena. Non da respingere, ma da attraversare mantenendo intatta la propria sostanza identitaria, dimostrando che l'autenticità non risiede nel sentirsi arrivati, ma nella capacità di rimanere se stessi dentro i cambiamenti, soprattutto quando potrebbero portare a una sfida più alta. Anche quando sembra tardi. Kierkegaard lo chiamava “salto nell'esperienza autentica”. Danilo Petrucci, invece, l’ha fatta come suo solito più facile: “vado in BMW e ricomincio un’altra volta, per diventare campione del mondo”. Quindi no, è da poveracci – neanche da leoni da tastiera – stare a giudicare o cercare di capire per giustificare una qualche assoluzione. Ciò che vale la pena, semmai, è stare a guardare cosa si inventerà questa volta l’Ulisse delle corse con quella coscienza pura che si ritrova anche quando ammette che sì, sentirsi chiamare ancora “pilota ufficiale” è qualcosa che gli piace da matti. Quasi quanto sognare ancora di diventare campione del mondo, lavorando per riuscirci fino a quando sarà possibile e magari anche oltre.
Pilota, sognatore, narratore, guerriero. Senza mai perdere il nucleo della propria ipseità, che per Petrucci è autentico tesoro anche se ci tiene a farli sembrare due spiccioli. Come Ulisse, appunto, nell’episodio del “nemo” dentro la caverna di Polifemo: dimostrando autenticità anche attraverso un apparente non essere. Perché gli unici conti che tornano sono quelli che si fanno con i propri pensieri, al limite con la propria coscienza, con quell’avere veramente voglia di sentirsi vivo anche quando costringe, in maniera quasi violenta e maledettamente irresistibile, a attraversare tutte le modulazioni possibili dell'esistenza.