Nel Mercante di Venezia, Portia, travestita da avvocato, pronuncia una delle più profonde riflessioni sulla misericordia mai messe nero su bianco: “la clemenza non è costretta, cade come la pioggia dal cielo su chi è sotto e benedice chi la dà e chi la riceve”. Sono parole che sembrano contraddire una realtà umana in cui la clemenza non è affatto universale, ma selettiva. Come se esistessero individui verso i quali la società, i sistemi giuridici (ordinari o addirittura sportivi) e persino i singoli esseri umani applicano un metro più rigido, quasi come se la loro colpa fosse intrinsecamente più grave. O la loro redenzione meno meritevole. Disparità. Che sfida il principio di uguaglianza e rivela una verità amara: la misericordia è spesso riservata a alcuni, mentre altri sono condannati a subire un giudizio implacabile sempre.

Nel motorsport, ad esempio, questa condanna qui sembra essere toccata a Andrea Iannone. Ok, a Balaton l’ha fatta grossa e l’incidente costato infortuni piuttosto gravi a altri piloti è stato causato da lui. Ma per cosa? Probabilmente per un eccesso di agonismo dovuto a un momento umano che è particolare: voleva solo dimostrare. Perché ha di nuovo un futuro da ricostruire dopo quattro anni in cui il futuro gli era stato addirittura negato e dopo due che non sono bastati a dimostrare il valore che sente di avere ancora. Eppure ha vinto. Eppure ha fatto dignitosamente bene con una moto e una squadra non certo da titolo mondiale. Però non basta e anzi c’è quasi un godimento collettivo a infierire. Fosse successo a altri avremmo parlato, probabilmente, di particolare generosità. Invece per lui è il contrario da sempre, forse perché The Maniac non ha mai avuto cura di sembrare come gli altri, beandosi di un soprannome che socialmente non è certo edificante, mescolando la sua vita da sportivo con quella di contesti differenti e fortemente mediatici e apparendo sempre per quello che è: un ragazzo che può togliersi tutti gli sfizi che vuole (super gnocche comprese) e lo fa senza nascondere niente, visto che non ha rubato niente e ha comunque meritato tutto. Ostentando? Forse sì, ma mica è vietato. Abbastanza, insomma, per stare sul ca*zo alla stragrande maggioranza del mondo che s’è concentrata sugli eccessi, sugli errori, quasi dimenticando la strada che uno come Andrea Iannone è riuscito a fare, soprattutto come protagonista di una storia di redenzione da qualcosa che lui stesso ha accettato pur avendola sempre considerata ingiusta. Da quando è tornato, dopo la storiaccia sul presunto caso di doping, non c’è stato un mezzo errore di Andrea Iannone che non sia stato punito col massimo della pena. E, anzi, quando c’è stato un qualche dubbio s’è preferito punirlo lo stesso.
L’assenza ieri a Balaton, dopo quello che era successo sabato, è stata giustificata con un infortunio dallo stesso Iannone. Ma se invece fosse una resa? Un momento di scoramento dovuto a una miserabile consapevolezza? La consapevolezza che la clemenza è un privilegio riservato a chi appartiene alla maggioranza, mentre gli “altri” – gli outsider, gli estremi, gli strani, i marginali, i diversi – sono giudicati con durezza. E’ innegabile che per Andrea Iannone è così: ok, sarà un po’ più oltre degli altri, ma basta scorrere l’elenco delle penalità rimediate in questa stagione (anche quando proprio non le meritava) per rendersi conto che a lui non ne fanno passare liscia una. E che, anzi, quando si può ci si va giù pure più pesante rispetto a quanto non si faccia quando i protagonisti sono altri.

E’ una disparità che si manifesta in modi sottili, ma pervasivi. E non è che nella vita, Iannone e motorsport a parte, vada molto meglio per “gli Iannone di tutti i giorni”. Ci sono quelli che commettono errori strategici, ma ben confezionati e infiocchettati, che vengono spesso perdonati e a volte addirittura ringraziati, mentre altri che sì, hanno sbagliato, finiscono per pagare più del reale dovuto. Solo che sulla croce ce ne abbiamo messo già uno un paio di millenni fa e non è stato un grande spettacolo di rara umanità. Scomodare lo stesso trattamento per Andrea Iannone nelle corse o per gli Andrea Iannone di tutti i giorni nella vita sarà un po’ troppo? E magari è il caso di sedersi un attimo a riflettere e rendersi conto che nessun doppio metro è mai casuale, ma è sempre il risultato di un sistema di (non)valori che privilegia quelli che ci sanno fare. Che si sanno porre. Che sanno imbonire. Che sorridono mentre ti inc*lano con l’unico scopo di mantenere pure il privilegio di una qualche assoluzione in tasca per quando servirà. Se servirà.
La faccenda riguarda nel caso specifico il motorsport, ma più in generale ogni aspetto del quotidiano: gli errori esistono e richiedono conseguenze, ma la giustizia, come sostenevano i padri della filosofia nel mondo classico, è la virtù che rende ciascuno degno di ciò che gli spetta. Ecco perché, quando la punizione diventa sproporzionata e un po’ troppo “ad personam”, quando trasforma un errore in una condanna tatuata per sempre, diventa ingiusta e umanamente viziata dalla così detta clemenza selettiva. Che non è più quella misericordia che rende gli uomini (almeno in questo) simili a un Dio, ma diventa uno strumento di potere in nome di una qualsiasi omologazione quando invece dovrebbe essere proprio l’umanità la lente per riconoscere che nessuno è immune da sbagli e fallimenti. E che la redenzione - come ha dimostrato proprio Andrea Iannone con la sua storia di rinascita (anche davanti all’ingiustizia che ha sempre sostenuto di aver subito) - è possibile solo se si concede il tempo e lo spazio per rigenerarsi, senza far sentire sempre all’angolo chi ha sbagliato e continua (umanamente) a sbagliare.

Sì ok, è così da sempre e è stato così addirittura nelle pagine intrise di buonismo dei Promessi Sposi, dove don Rodrigo è un tiranno spietato, ma Manzoni non lo condanna senza pietà: gli attribuisce una complessità psicologica che lo rende umano. Al contrario, personaggi come il Griso o il Nibbio sono tratteggiati in maniera più netta, quasi come incarnazioni del male assoluto. Come, insomma, se andassero in giro con un 29 sul cupolino. Perché? Perché non si presentavano bene? Perché si mostravano meno eleganti e più diretti? Quindi la clemenza è più facile da concedere a chi risulta più omologato? Eppure è proprio questo dualismo a rivelare l’ingiustizia: la clemenza non dovrebbe dipendere dalla nostra capacità di empatia, ma da un principio universale di dignità umana. Soprattutto nello sport. Soprattutto in determinati momenti di determinate carriere. Restando più distanti possibili da dinamiche che invece sono tipiche dei social media, con la loro cultura del defollow e della condanna immediata, che hanno creato un nuovo sistema di giudizio sommario, in cui un errore passato, o un modo di vivere, può distruggere una carriera in pochi minuti. La clemenza, per Andrea Iannone, sembra l’unico lusso che non può permettersi a causa di tutto il lusso che, invece, riesce a permettersi.
Nessuno, sia inteso, vuole negare la responsabilità individuale di Andrea Iannone a Balaton e nemmeno che l’abruzzese a volte sembra voler fare di tutto per mostrarsi meno gradevole di quello che invece è. Però ragionare al netto di tutto dovrebbe essere non un’opzione, ma un dovere etico: un atto di fede nella capacità umana di cambiare. Crescere. Diventare migliori. Soprattutto quando c’è di mezzo lo sport e è di uno sportivo che si sta parlando. Altrimenti pure lo sport diventa solo performance, qualcosa da ridurre a scienza e freddi numeri al di là degli uomini e dei limiti umani, da superare non solo sulla base di una qualche unità di misura.