Il primo dei castighi? Non essere mai assolti dalla propria coscienza! Decimo Giulio Giovenale ne era convinto ben più di qualche secolo fa, quando la MotoGP non era neanche una idea. Eppure è proprio lui, Decimo Giulio Giovenale, a aver detto la cosa più sensata di tutte sul “caso Jorge Martin e Aprilia”. Perché in questi giorni s’è letto di tutto su un ragazzo per il quale sono stati scomodati anche termini pesanti e altrettanto s’è detto su una Aprilia considerata “sottona” e troppo poco “schiena dritta”. Nessuno, però, sembra essersi reso conto che anche le più fredde storie di contratti sono fatte da uomini e di decisamente poco umano c’è sempre e solo il giudizio di chi guarda.

C’è un ragazzo, da una parte, a cui è capitato di tutto nel momento in cui si sentiva un quasi Dio, dopo un mondiale vinto con una moto ufficiale, ma colorata di privato, e aspettative sparate alle stelle. Un ragazzo che vorrebbe solo correre e che, proprio per questo, ha affidato a “gente intorno” tutto ciò che è gestione, compreso il capire cosa e come è meglio per lui. C’è, dall’altra parte, una squadra che ha sempre fatto della lealtà il cavallo in più, anche quando i cavalli da scaricare in pista erano pochi e le soddisfazioni ancora meno, nonostante una storia di gloria, nonostante 54 titoli vinti, senza, però, quello che – almeno a sentire i soliti – conta davvero. E’ la stessa squadra che quando sarebbe convenuto trattare da “appestato” Andrea Iannone lo ha, piuttosto, difeso, accolto, coccolato e, non ultimo, continuato a pagare fino a quando, a squalifica scontata, il pilota abruzzese non ha detto “ciao a tutti, c’è una Ducati per me in SBK”. E’ la stessa squadra che a quella comunicazione ha reagito come reagiscono quelli che la lealtà la mettono davanti veramente, rispondendogli più o meno così: buona fortuna ragazzo, siamo contenti che tu possa tornare a correre e anzi ci dispiace non aver potuto darti un moto per farlo, non essendo noi in Superbike. Insomma: signori. Signori punto e basta.

Ecco perché oggi dispiace, e dispiace davvero, vedere che si punta il dito contro chi, in fondo, è stato sempre così. S’è sempre comportato così. E non ha mai dato a vedere di voler andare avanti in maniera differente. La gestione del caso Martin è esercizio di ricucitura di lusso. E’ un padre che dice a un figlio: capisco il tuo momento, comprendo le tue smanie, accetto le tue insofferenze e accolgo persino l’offesa che mi rifili come una pugnalata sulla schiena, però sei mio figlio e da padre mi comporto: accogliendoti oltre il limite dell’accoglibilità. Che non significa, come sembrano sostenere i soliti faciloni, essere “sottonI” o dar ragione a quel figlio. Ma, anzi, significa dirgli “vieni qui, lasciati abbracciare e non costringermi alle maniere forti per farti capire che stai sbagliando o, almeno, per avere insieme un ragionamento”. Occhio, cari faciloni, quello è il modo che fa più male degli schiaffi, anche quando il figlio in questione è un campione ormai viziato e che pensa di potersi permettere tutto. Aprilia sta semplicemente agendo secondo la sua coscienza. E la sua natura. E con una dignità di gran lunga superiore a quelli che “cacciano via”, “portano subito in tribunale” o fanno stupidamente gli offesi e feriti.
Quell’abbraccio a Jorge Martin non lo ha offerto solo Massimo Rivola – l’uomo ritenuto colpevole di “fare il sottone”, ma pure lo stesso uomo che, nel girono della vittoria di Bezzecchi e nel bel mezzo del momento più difficile della storia recente di Aprilia, ha abbracciato e consolato Fabio Quartararo prima ancora di sfogare tutta la gioia che poteva avere dentro – ma tutto quel popolo speciale che in Aprilia si riconosce e che, tornando ai latini che non potevano saperne nulla di MotoGP, ma barando un po’, hanno aderito a un motto che suona più o meno così: semel Aprilia, semper Aprilia. Massimo Rivola, piuttosto, lo sa da sempre e ha “sfruttato” da genio il momento, sapendo che proprio in questo fine settimana a Misano quel popolo si sarebbe ritrovato. E quell’abbraccio a Jorge avrebbe potuto farglielo sentire davvero, al di là di tutto quello che un manager (che fa il suo mestiere) può sussurrargli nelle orecchie, al di là del potersi essere convinto di una qualche sfiga. E, udite udite, anche al di là del denaro, che comunque è sempre abbastanza lo stesso, anche se è molto meno e non c’è la firma di un giapponese che gestirà pure un impero, ma che non vedrai mai in faccia. Meno che mai per un abbraccio. Per le maniere forti, per gli scapaccioni o i tribunali, c’è tempo. E, anzi, siano benedetti gli uomini leali in questa MotoGP con le ali. Basterà? Difficile da dire, ricucire è un verbo che si coniuga più spesso all’impossibile che al possibile, ma di sicuro sarà abbastanza, ancora una volta, per aver dato una lezione a tutti: essere brand non è solo questione di denaro, contratti e freddi numeri. Perché pure i brand li fanno le persone. E le persone, quelle che possono decidere da sole, a volte si ricredono anche.