Una lezione di calcio. Di vita, di tutto. La prima Champions League della storia del PSG è anche il trionfo di un grande uomo: Luis Enrique. Un gigante di questo sport che aveva già alzato il trofeo più prestigioso d’Europa nel 2015, quando allenava il Barcellona, e vinto tutte le dieci finali alle quali aveva partecipato. Un fenomeno di umanità, tattica, empatia con uno sport che spesso si irrigidisce troppo nell’ossessione del risultato a tutti i costi e perde quella connessione emotiva che genera passioni e identità. Luis Enrique sembra di un altro pianeta. Emoziona e ti guida nella lettura della vita attraverso il sentiero dei sentimenti più forti, senza perdere di vista l’obiettivo di domani, nonostante le cadute. Le ferite che restano per sempre.

Papà Luis l’aveva promesso alla piccola Xana. Voleva piantare ancora la bandiera in mezzo al campo, come fecero insieme dieci anni prima, nel 2015, con i colori blaugrana. Erano felici, lei aveva 6 anni e splendeva di gioia. Quattro anni dopo era morta a causa di una grave malattia. Quella fotografia indelebile, l’allenatore del PSG, la indossava durante la finale di Monaco. Era raffigurata sulla t-shirt nera illustrata dall’artista Edgar Plans. Un filo invisibile e solido che, come si riporta sul sito ufficiale di Fondazione Xana, rappresenta sostegno, affetto ed energia.
Xana era in campo con il padre: “È sempre con me da quando è morta” aveva raccontato, Luis Enrique, nel documentario a lui dedicato. “Se n’è andata con il corpo nel 2019, ma è rimasta con noi. Abbiamo vissuto insieme nove anni meravigliosi e abbiamo tantissimi ricordi che la fanno stare sempre qui”.
Cadere e rialzarsi più forti di prima, questo ci insegna il trionfo del PSG di “Lucho”. Squadra giunta al suo primo trofeo internazionale dopo più di 10 anni di tentativi, miliardi di euro buttati dalla finestra, se non da un’altra parte, superstar del calcio passate da Parigi per specchiarsi e arricchirsi e un inizio stagione complicato in cui i francesi hanno rischiato una clamorosa eliminazione alla prima fase di Champions League. Invece la cura dell’anima di Luis Enrique, ha avuto un processo lungo due stagioni, ma un passo alla volta, ha portato alla dimensione di grandezza. Quella giusta per stupire il mondo e prenderselo
Via tutte le figurine dallo spogliatoio: prima Neymar, Messi e, quest’anno, in particolare Mbappé, che si era trasferito a Madrid per vincere quella Coppa che non sembrava poter arrivare sotto la Torre Eiffel. Spazio al talento. A giovani disposti al sacrificio e al gioco di squadra. Arrivano il giovane Douè dal Rennes, diciottenne baciato dal Dio del calcio e a gennaio si punta su Kvatskhelia, fuoriclasse georgiano quasi scaricato dal Napoli, dove sembrava essersi smarrito. L’allenatore era così convinto del traguardo che a settembre aveva spiazzato tutti: “Senza Mbappè saremo più forti”. Ha avuto ragione.
Questo nuovo PSG è un’orchestra perfetta. Ha tutto della personalità della sua guida. Il sorriso, il coraggio, la ricerca della bellezza del gioco. E, soprattuto, gli occhi di questi ragazzi, trasudano umanità e spirito di gruppo. Lo abbiamo visto in ogni istante di una finale di Champions League dominata come non mai, dal primo minuto all’ultimo. In campo i francesi sembravano danzare di fronte ad avversari inermi, incapaci di contrattaccare. E quando, sul 4-0, Kvaratskhelia ha inseguito Dumfries per 40 metri recuperando il pallone, abbiamo capito il capolavoro di Luis Enrique. Un maestro, un gigante, un grande uomo che ha rivoluzionato Parigi e la storia del calcio.
E ora goditela con tua figlia Xana, come dieci anni fa.
È tua questa vittoria.

