La tentazione di intellettualizzare cose che sono molto più semplici, immediate e non hanno bisogno di particolari spiegazioni né supporti teorici, resta forte. Ne so qualcosa avendo provato, due anni fa, a inventare una mostra che metteva insieme la moto - ovvero, la mia più grande passione insieme al calcio- e le arti, cioè la mia principale professione nonché fonte di reddito. L’esperimento riuscì, anche per la bellezza dello scenario, la Reggia di Venaria, tantissimi visitatori, successo come si dice di pubblico e critica eppure il dubbio che l’operazione non fosse del tutto legittima, e non magari il risultato di una mia fantasia, mi ha accompagnato a lungo.
Spesso sentiamo il bisogno di aggiungere un surplus culturale a quel che di selvaggio è in noi. Cerchiamo libri di viaggio, fotografie, trattati filosofici, storie di uomini e di motociclette come direbbe un mio caro amico, cinema, design di ricerca, moda e stile al fine di consolidare i pilastri culturali di un pezzo della nostra vita che altrimenti risulterebbe selvaggio, basico, elementare, a rischio di perdere per strada istinto, naturalezza, una sporcizia sana e non artefatta come i jeans customizzati manco fossero una café racer.
Così, invitato al Santarcangelo Festival, che in direzione ostinata e contraria si è fatto (tra tutte le arti il teatro ha più necessità di contatto fisico e rapporto ravvicinato tra le persone), ci sono andato per almeno quattro motivi: adoro Rimini, la Romagna e la sua gente; possibilità di un weekend lungo in moto; direzione artistica affidata ai Motus, ovvero Daniela Nicolò ed Enrico Casagrande, che conosco e seguo da anni; la performance-esibizione Anubi III di Zapruder. Non ne sapevo molto, se non che questa divinità nell’antico Egitto veniva rappresentata come un uomo dalla testa di sciacallo, un dio dei morti che proteggeva il rito dell’imbalsamazione. Però poi ho letto “concerto per rombo di motori in equilibrio tra il minimo e il massimo dei giri”. Il teatro di ricerca e di avanguardia sarà anche difficile, non di rado velleitario quasi come il tentativo di cui ho parlato all’inizio, però sulla carta questo è davvero il mio spettacolo.
E allora prenoto. L’organizzazione mi spiega che Anubi III si terrà in un grande piazzale polveroso sabato alle 23 e che ci si potrà entrare solo in auto o in moto mezz’ora prima, nessuno a piedi. I mezzi sono disposti a schiera come in un drive-in che mi fa venire in mente lo scenario di Christine. La macchina infernale di John Carpenter e i deliranti romanzi di Joe Lansdale. Eccolo, ancora una volta, il vizio dell’intellettuale con il suo bagaglio di citazioni, non se ne può fare a meno. Una decina di motociclette da cross e regolarità, i cui motori sono stati microfoni e amplificati come per tenere una conferenza rumorosa o un DJ set, cominciano a girare in tondo, girano per circa 40 minuti, accelerano, frenano, saltano sulla pedana, si schierano compatte e si dividono rincorrendosi. Non è una gara, forse uno spettacolo di danza contemporanea, una performance artistica, ma considerando che è sempre il contesto ad attribuire il giusto significato all’oggetto, e trovandoci noi in un festival di teatro, allora Anubi III è teatro.
Non c’è particolare scrittura drammaturgica, un inizio, un centro, una fine, ci si aspetta che qualcosa accada e invece non accade nulla. Secondo Zapruder è la messa in scena, in uno spazio molto ampio per via delle restrizioni e del distanziamento, di un’eterna partenza che non avviene mai. I piloti sono tutti ragazzi (anche una donna) reclutati nella zona, dunque non sono attori e non interpretano nulla.
Anche questa volta il mio bisogno di considerarmi un motociclista intelligente è soddisfatto e ora posso concentrarmi sul cambio della guarnizione del serbatoio che deve essersi crepata e infatti fuoriesce della benzina quando faccio il pieno.