Ad Abu Dhabi si corre al tramonto e ogni anno, quando fa buio, scende l'ora dei saluti sulla stagione di Formula 1. Ieri a Yas Marina la Ferrari ha salutato un annus horribilis chiuso sotto il fuoco finale di un nuovo caos, segnato dalle dimissioni dell’amministratore delegato Louis Camilleri. E nella confusione di un futuro incerto, uno dei pilastri della scuderia ha lasciato la rossa, scendendo un’ultima volta dalla sua Ferrari nella notte di Abu Dhabi.
Un weekend difficile per il tedesco, per la squadra, per i tifosi. Per chi l’era di Sebastian Vettel l’ha vissuta tutta, intensamente, e in quel sogno di “riportare un’altra bandiera a Maranello” ci ha creduto almeno un po’. E allora tutti a piangere per i suoi saluti, per il casco con dedica, per le parole del compagno Charles Leclerc.
Tanta emozione, forse un po’ troppa. Che poi alla fine la Formula 1 è uno sport, è divertimento, è passione. Sebastian non si sta ritirando, sta solo iniziando qualcosa di nuovo. È tempo di cambiamento, e il cambiamento è ciò che nella vita ci salva sempre. Dagli altri, da noi stessi, da quello di cui abbiamo paura.
E dall’impiccio di un giorno duro, Sebastian Vettel ne viene fuori a modo suo. Canta Adriano Celentano, storpiando le parole, mandando giù la voce rotta, consapevole che con qualsiasi altro saluto sarebbe stato impossibile nasconderla.
Poi nei box, dopo la premiazione e la foto di rito con tutto il team, Vettel prende un cartone di Heineken e si mette a distribuirle ai suoi amici. Studente all’ultimo giorno di scuola, in barba alle norme del anti-coronavirus e alle mascherine, Seb si rivela, ancora una volta, più italiano di noi.
Noi che stiamo qui a disperarci, guardando filmati sapientemente montati per farci rivivere tutte le vittorie del tedesco con il nodo alla gola. Noi che ci attacchiamo a una storia d’amore finita, mentre lui si beve una birra con la sua squadra. Lo diceva sempre Sergio Marchionne, che Vettel è italiano dentro, e quel cartone di birre ci dice molto più di lui che cento montaggi video delle sue vittorie. Italiano, sanguigno, testardo, furente, emotivo. Ma anche tedesco, con quelle canzoni stereotipate e il cartone di Heineken sotto al braccio.
Il pilota che se ne va da Maranello come il terzo più vincente della storia della scuderia ammette candidamente di aver comunque fallito nel suo sogno, del suo obbiettivo. Lo stesso Vettel che non ha paura di dire che quella che doveva essere la sua consacrazione, lo ha portato a una profonda crisi personale, a un dubbio che forse oggi lo tormenta ancora: “sono ancora bravo a fare il mio lavoro?”.
Ma ci beve su Sebastian, come dovremmo fare noi. Che dei disastri della Ferrari siamo inconsapevoli spettatori, tifosi o meno della scuderia, che non sappiamo nulla del futuro, il nostro come quello di questo sport, e che alla normale tristezza di questo saluto finale dovremmo rispondere alzando una birra, davanti alla televisione e brindando a questo romanzo, fallimentare, romantico, impossibile da rinnegare.
Gigantesco, come questo sport sa essere, ma così incredibilmente normale da essere concluso con un cartone di birre in mano.
A brindare a quello che si ha dato, e a quello che rimarrà.
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