Avrete sentito tutti la storia di Sixto Rodriguez, il cantautore del Michigan divenuto famoso in tutto il mondo per il film del 2012 "Searching for Sugar Man" del regista svedese Malik Bebdjelloul. Film premiato al Sundance Film Festival, e l’anno successivo vincitore di un Premio Oscar, che racconta dsll’incredibile successo ottenuto in Sud Afric da Rodriguez, le cui canzoni diventeranno colonna sonora dell’anti apartheid in maniera clandestina, censurate dal governo centrale, e anche a insaputa dello stesso cantautore. Al punto che, a un certo punto, Rodriguez prese a lavorare come operaio, mentre qualcuno a sua insaputa intascava i diritti d’autore delle sue canzoni. Caduto l’apartheid i suoi dischi vennero pubblicati ufficialmente in Sud Africa, dove il nostro era celenterato come uno dei pochi grandi della scena internazionale, pur non sapendo neanche se fosse ancora vivo. Solo nel 1997 Rodriguez verrà messo a conoscenza della sua fama a distanza, verrebbe da dire in contumacia, ma solo con l’uscita del film a tale successo seguirà anche un certo benessere economico e riconoscimento. Una Stona incredibile, che vedrà il suo epilogo nel 2023, con la sua morte a ottantuno anni. Una storia che in qualche modo anticipa quel che succede ogni giorno sui social, quando perfetti sconosciuti diventano virali grazie a reel o meme. Pensate, che so, alla piccola bambina che piange e ride nello stesso tempo, virilissima di questi tempi, famosa in tutto il mondo a sua insaputa, o al brocco divenuto famoso per le sue non imprese calcistiche.
Questo per dirvi che molto probabilmente in questo momento c’è un ragazzino caucasico, dire bianco darebbe la stura a chissà quante polemiche razziali, divenuto virale a Taiwan perché fa bombing a una diretta vlog che mostra una famiglia taiwanese mentre cena, salutando in camera. Quel ragazzino caucasico è nostro figlio Francesco, che istrione e anche vagamente megalomane quale è ha ben pensato, ieri sera, di fare irruzione nella diretta che sette taiwanesi ospiti del nostro stesso resort stavano facendo durante la cena. Tre coppie, una delle quali con bambina appresso, quelli che ieri hanno letteralmente scatenato il panico regalando vestiti ai bambini del villaggio senza seguire le indicazioni dei titolari, e che si sono già messi in evidenza perché la prima sera hanno fatto una mezza scenata perché la cena era in ritardo, vai poi a capire ritardo rispetto a cosa. Qui i ritmi sono decisamente rilassati, sempre. Comitiva che alla loro seconda serata, quella della diretta vlog a un certo punto bombizzata da Francesco, ha fatto un tale casino, specie la tipa della scenata della serata precedente, che sono andato a cercarmi come si dice “hai rotto i coglio*i” in lingua locale, “Ni zhen rang ren taoyan”, con giusto qualche segno speciale in quasi tutte le vocali, segni che non sto qui a riprodurre (per precisione, qui trovate la giusta grafia Nī zhēn ràng rén tāoyàn).
Quindi, da un certo punto di vista, il bombing di Francesco è sacrosanto, una sorta di guerra ai maleducati, non fosse che lo avrebbe fatto comunque, per il gusto di mostrarsi. Scrivo questo da un lettino del Baraka Beach, a Nungwi, la punta nord dell’isola, un mare cristallino di fronte a noi, un gruppo di chiassosissimi connazionali a far casino a pochi metri da noi, un nano autoctono a dimostrarci che la natura è matrigna anche da queste parti, scusatemi ma sono della stessa terra di Leopardi. Sul perché io stia a scrivere invece che a rilassarmi si potrebbe aprire un capitolo a parte, ma come disse Truman Capote a chi gli chiedeva perché avesse sputtana*o tutte le sue amiche dell’alta borghesia, raccontando tutto quello che loro gli avevano confidato: “Sono uno scrittore, cosa avrei dovuto fare?”. Questa è la storia del ragazzino occidentale che saluta in camera e diventa virale a Taiwan. Ma anche quella di due ragazzi, ventitré anni lei, diciannove lui, che nella notte, qui per notte si intende qualsiasi momento tra le sei e mezzo del pomeriggio alle sei e mezzo di mattina, forse anche prima, nello specifico sono circa le dieci di sera, vanno nel buio e chiedere a un Masai se può togliere alla ragazza delle spine di riccio da un piede, lasciandolo interdetto. E nel mentre il nano local ha fatto una serie di evoluzioni danzerecce circensi insieme a altri ragazzi, non nani, sulle note di Jerusalema, a nostro beneficio. Gli altri bagnanti qui non se li sono caga*i, perché probabilmente passano tutte le mattine e loro soggiornano qui, a nostra differenza. Il Masai si chiama Kobolo. Nel buio si distingue appena il tipico costume rosso e nero, una tunica che lascia scoperta una spalla, i capelli luhghetti raccolti in freccine, un bastone fino in mano, originariamente usato per governare le pecore, essendo in Tanzania i Masai un popolo di pastori, ora a uso folkloristico a beneficio dei turisti, come l’osso di non so che animale che portano alla cintura, come fosse una spad. Il Masai è una delle guardie notturne del nostro resort, i Jafferji Beach Retreat. I due ragazzi i nostri figli Lucia e Tommaso. Lucia quella che ha le spine nel piede, dal nostro primo giorno a Zanzibar, quando abbiamo provato a raggiunge la barriera corallina. La location buia è il giardino del resort, aperto verso la spiaggia e il mare, dove i Masai fanno la guardia di notte nascosti come dei ninja. In realtà avrebbero dovuto chiederlo a un altro Masai, che però è il solo che veste occidentale, tale Manuel. Ho già spiegato che i Masai hanno nomi italiani perché battezzati cattolici da preti italiani. Per quanto ci si sforzi, e suppongo sia lo stesso per loro nei nostri confronti, ci è difficile riconoscere un Masai da un altro. Ora la spiaggia qui davanti si è letteralmente riempita di Masai che al saluto di “Jambo” vendono oggetti o propongono servigi. È la prima volta da che siamo qui che siamo in una spiaggia con diversa gente, stando agli standard locali dovremmo dire moltissima, e non a caso molti ci avevano detto di non venire perché, cito tra virgolette, “Nungwi è la Rimini di Zanzibar”. Ora, non so che opinione abbiate voi di Rimini, evidentemente chi ci ha messo in allarme rispetto a Nungwi non ne ha una buona. Col dire Rimini, vado a interpretazione, avrà appunto voluto dire che ci avremmo trovati altri turisti, qui stiamo parlando di una trentina, attenzione, mentre io mi ero erroneamente immaginato grattacieli che ospitano hotel sul lungo mare. Niente di più lontano dalla realtà. Qui c’è un mare strepitoso, spiaggia bianchissima, palme, poche strutture, tra cui un ristorante italiano famosissimo nell’isola, Mama Mia, dove pranzeremo, c'è più gente local che prova a venderti qualcosa che turisti. Il fatto che ci siano italiani, che dalle nostre parti chiamremmo gaggiotti, non ci rende felici, ma pazienza. Già arrivati in città, chiamiamola così, ero rimasto stupito di vedere non palazzi ma le solite piccole strutture, a volte con tetto in lamiera che ospitano negozietti e bancarelle, dove poi andremo a prendere gli ultimi souvenir da riportare in patria. Quaranta dollari per tre ombrelloni e sei lettini mi hanno fatto pensare a prezzi italiani, ma a pensarci meglio con quaranta euro, dalle mie parti, ci saremmo a stento stati in due.
Questa cosa del sovradimensionamento dell’offerta è abbastanza tipica di qui. Anche da noi, dopo otto giorni mi sento di dire così, anche se ho appena scoperto che il posto si chiama Matemwe e non Matemwi. Anche da noi, dicevo, ci sono centinaia di barche per portare i turisti a fare snorkeling o il bagno coi delfini vicino a Mnemba, ma non ci sono centinaia e centinaia di turisti, per poterle riempire. Qui è così, ci somo tre lidi, chiamiamoli così. Il nostro ha due file da sei ombrelloni, con ventiquattro lettini a fila, per intendersi, di fianco a me c’è una coppia di gay italiani che letteralmente impazzendo per un sosia di Jason Momoa, l’Aquaman cinematografico. Stesso fisico, stessi capelli. Dietro tre ragazze bellissime americane, sembrano tutte Amerie, la rapper, gli altri due lidi delle stesse grandezze e con lo stesso numero di utenti. E ci sono decine di Beach boy, di Masai, di ragazze che fanno treccine o massaggi. Evidentemente è più Rimini per loro che per noi. E di Rimini, ripeto, qui non vi è ombra. A volte, a fidarsi delle indicazioni, si perdono bei luoghi e belle occasioni, ma questo già lo sapevamo. Quando siamo partiti stamattina, per dire, c’era bassa marea, con local già arrivati a piedi alla barriera corallina. Il mare una tavola e un sole splendente su un cielo limpido. Ieri che avevamo deciso di andare alla barriera corallina c’era alta marea sia di mattina che di pomeriggio, era nuvoloso e la sera addirittura freschino, stando agli standard locali. Strada facendo, da Matemwe a qui, Nungwi, ci vogliono circa quaranta minuti. Abbiamo superato zone dove pioveva, e fossimo stati lì magari non ci saremmo mossi pensando a maltempo ovunque. Qui a Nungwi è a tratti nuvoloso, ma si sta benissimo. Zanzibar è un’isola sotto l’Equatore e sopra il Tropico del Capricorno, sull’oceano Indiano, qui funziona così. E funziona anche che a un certo punto arriva una barca grande e piuttosto malmessa, carica di gente local, con alcune donne ben vestite e gli uomini invece davvero sgaruppati, che arriva, si ferma proprio in mezzo a questa piccola baia dove si trova il Mama Mia, con un tizio che lega l’ancora praticamente tra due lettini con due ragazze, questo prima che parta una salva di scarpe e ciabatte lanciate dalla barca, alcune delle quali che arrivano addosso a altre ragazze su altri lettini. Uno spettacolo quantomeno bizzarro. Mai quanto Jason Momoa che continua a entrare e uscire dall’acqua, mostrando i muscoli pettorali, almeno una quarta, mentre si porta indietro i lunghi capelli, a beneficio degli astanti e delle astanti. Questo prima e dopo il pranzo da Mama Mia, spaghetti con l’aragosta e la grigliata mista di pesce, anche lì soprattutto aragoste, davvero spaziale, con vista su un mare cristallino, per qualche istante reso ancora più spettacolare da una tromba d’aria sul mare, davvero spaventosa, seppur al largo. Largo dove si vedono chiaramente la piccola isola di Popo Island, e la più grande di Tumbatu. Un vero spettacolo, anche se io mi appassiono sempre più degli spettacoli offerti dagli uomini, come la coppia, sempre di italiani, che si è azzeccata a un gruppo di donne attaccando quello che credo entrerà nel Guinness dei primati come il bottone più lungo del mondo, una a un certo punto credo abbia finto un ictus pur di non continuare a ascoltarla (la tipa che si accolla è una di quelle che si è beccata la scarpa addosso dalla barca sgaruppata, che nel mentre è diventata di lusso per turisti che vogliano vedere il tramonto al largo, ma non credo questo giustifichi l’accollo).
Prima di mettervi a conoscenza del fatto che si, Manuel, il Masai in camicia, è in grado di togliere le spine di riccio dai piedi, usando un lungo spillone e succo di papaia, prendete atto che a un certo punto Aquaman si è messo in riva al mare. Si è messo lì, con le braccia conserte dietro la schiena, per mostrare i deltoidi. Strano tipo di umarell marittimo, al punto che ero sul punto di mettermi nella stessa posa al suo fianco per percularlo e farmi fotografare dai miei figli. Non fosse che è arrivato un gruppo di local che si sono messi esattamente sopra i suoi piedi e la sua borsa coi propri teli da mare, professionisti del perculamento di fronte ai quali ho dovuto alzare le mani. Qui a Nungwi è tutto rilassante e bello, altro che Rimini Rimini, citazione tondelliana quantomai fuori fuoco. È così bello e rilassante che abbiamo deciso di posticipare la nostra partenza verso il nostro resort a dopo il tramonto, in mezzo un drink e un gelato sempre da Mama Mia, gestito da un simpatico salernitano da otto anni qui a Zanzibar. Dopo un giro per negozietti, che ci fruttano un album fotografico locale, un portachiavi a forma di rinoceronte, un secondo me lo intarsierà seduta stante un tipo che fa il giro dei lettini, è un paio di bellissime tazze, una sempre con la testa di un rinoceronte, non credo serva spiegarvi perché io sublimi il non averne visti al Safari sopperendo il tutto con souvenir, una a forma di giraffa, aspettiamo il tramonto, con un fastidioso dj set che porterà un po’ di gente in spiaggia, trasformandola per qualche minuto in un luogo un po’ meno godibile. Uno degli ultimi guizzi della giornata, parlo di umanità, è scoprire che il sosia di Jason Momoa, in realtà, è un gigolò che alla fine è riuscito a conquistare una ragazza che nel mentre si è fatta fare le treccine da una signora local, sorta di incarnazione perfetta della turista colonialista di stanza in Africa. Il fatto che Jason sembri in tutto e per tutto europeo, beh, è irrilevante. Meno irrilevante, ma qui è perché in fondo, per quanto io mi sforzi di essere o forse solo sembrare diverso dai turisti italiani che incontriamo, come se chiamarsi viaggiatori potesse cambiare qualcosa, è il fatto che mentre ancora ce ne stiamo sotto gli ombrelloni, i tipi di Baraka Beach apparecchino tavoli a due centimetri dai nostri piedi, di fatto cacciandoci. In Italia li avrei mandati affancu*o, qui però siamo in Africa. Paese che vai usanza che trovi. Usanza che trovi e anche panorama che trovi, perché in una sorta di crescendo wagneriano, dove al posto dell’enfasi e dello spirito marziale si sostituisce emozione e empatia, il tramonto ci è arrivato addosso come un uragano di bellezza: il cielo e il mare che si è tinto di rosso di fronte a noi mentre alle nostre spalle un arcobaleno solcava prepotente il cielo. Al punto da cancellare anche una fuori luoghissima musica dance, pur con sfumature africane. E anche una certa folla, tra turisti e local, giustamente tutti accorsi per gustarsi tanta magia. Mancano due giorni alla fine di questo viaggio, toh, due e mezzo, quasi tre. Godiamoceli tutti e a chi prova a ricordarci che tra qualche giorno saremo a Milano possiamo sempre rispondere Nī zhēn ràng rén tāoyàn.