Monza, 1995. Ultimo Gran Premio d’Italia per Jean Alesi alla Ferrari. L’anno dopo sarebbe arrivato Michael Schumacher, quel tedesco di ghiaccio che non piaceva a nessuno. I ferraristi lo odiavano, si sentivano orfani di Alesi, non capivano perché servisse prendere Schumacher a Maranello. Sugli spalti di Monza sventolava un cartello: “Meglio un Alesi oggi che 100 Schumacher domani”. Chissà come si dovrà essere sentito il Kaiser vedendo tutto quell’astio, seguito da telefonate minatorie e grandi fischi di disapprovazione. E chissà che cosa avrà pensato, meno di dieci anni dopo, all’apice del successo assoluto. Quando ormai era IL pilota Ferrari, il più vincente di tutti, l’inarrivabile.
Monza, 2018. Lewis Hamilton trionfa in Italia - a casa dei tifosi Ferrari - dopo le speranze vanificate di un sabato di festa per le rosse. Ma è sempre quell’inglese a vincere, sempre e solo lui. Non lo sopporta più nessuno, perché vederlo trionfare, domenica dopo domenica, è diventata l'immagine di una Formula 1 prevedibile, sempre uguale. Sugli spalti sventola un cartellone, come quello contro Schumacher di tanti anni prima, e c’è l’immagine di un Lewis bambino, capriccioso e piangente, per sfottere quel lato insicuro del carattere del campionissimo.
Hamilton è così, un bambino vincente mai cresciuto davvero. Un pilota precocissimo che ha imparato a vincere imparando a perdere. La prima volta nel 2007, quando ha sfiorato il trionfo mondiale al suo esordio, ma sulla sua strada si è piazzato il peggior compagno di squadra possibile per un ragazzino a cui serve una guida: Fernando Alonso. Quello che successe a quel mondiale, a quel team e a quei piloti è nella storia di questo sport, ma quello che da quel momento capì Hamilton è scritto nel carattere del Lewis di oggi.
E dopo aver fatto le scelte giuste, nei momenti giusti, dopo aver dimostrato di essere il migliore battendo record dopo record, oggi Re Hamilton ci appare ancora come quel bambino insicuro. Che nei team radio ha sempre bisogno di essere rassicurato, che ancora non sopporta la presenza di Rosberg (suo grande omicida nel 2016) nei paddock, che anche nella vita reale - fuori dagli autodromi - fatica a sembraci una figura sempre coerente. Impegnato su mille fronti sociali, appassionato di musica, esperto di moda, amante della famiglia, mondano, festaiolo, fragile e poi fortissimo, simpatico e insopportabile insieme.
Fatichiamo a imbrigliarlo, a definirlo in modo coerente, e questo lo allontana da noi. Anche oggi, il suo giorno, oggi che ha raggiunto le 91 vittorie di Michael Schumacher. Anche oggi non riusciamo a capirlo davvero. Ha appena scritto la storia della Formula 1, raggiungendo un record che fino a pochi anni fa ci sembrava impossibile anche solo da immaginare, e presto ci regalerà record nuovi, suoi, record che sembreranno ancora più impossibili da battere.
Già incoronato Re del suo sport, Hamilton oggi è diventato monarca assoluto, eguagliando quel ragazzo tedesco che tanto non piaceva ai ferraristi. E così come allora la polemica è facile, tra chi lo accusa di vincere solo grazie alla monoposto più competitiva (come se in F1 si potesse vincere senza macchine competitive) e chi non vuole nemmeno sentire il paragone con Schumacher.
Ma la verità è che Lewis Hamilton è Lewis Hamilton, e cercare di paragonarlo a qualcun altro sarebbe il più grave degli errori. La sua 91esima vittoria chiude un cerchio: basta paragoni, basta tentativi di essere il migliore, basta cercare di raggiungere qualcosa. Ora che la vetta è scalata, ora che il cerchio è chiuso, ci rendiamo conto che Lewis non ha eguagliato i record di Schumacher ma ha sconfitto quelli con se stesso.
Imprendibile in pista e fuori, così difficile da imbrigliare in una sola personalità, Hamilton è il ritratto della propria generazione. E della sua vera importanza non possiamo renderci conto oggi. Ma lo faremo, prima o poi, e capiremo la fortuna di averlo visto vincere, mentre scalava la vetta più alta della storia della Formula 1.