Le colline di Calabasas sono note perché custodiscono alcune tra le più lussuose ville di attori e sportivi americani, incastonate tra la Walk of Fame di Hollywood e la spiaggia bianca di Malibù, alle porte di Los Angeles. Questo, almeno, per chi abita negli Stati Uniti. Per tutti gli altri sono il luogo in cui Kobe Bryant, domenica 26 gennaio 2020, è morto in un incidente aereo con la figlia tredicenne Gianna e altre sette persone.
Ricordo bene quel sottopancia nei canali televisivi, anche quelli più distanti dal mondo del basket NBA o dello sport in generale. Ero a casa, e fino a quel momento avevo sempre detestato Kobe, con tutto l’odio sportivo che un tifoso dei Boston Celtics può nutrire per il giocatore che più ha incarnato il cuore e lo spirito dei Los Angeles Lakers, gli storici rivali.
Celebrare Kobe Bryant e ricordarne la scomparsa prematura è un compito difficile, quasi impossibile: il silenzio sarebbe il miglior aedo. Eppure bisogna farlo, per spiegare a tutti quale maestosa grandezza abbia trasposto sul parquet il figlio di Joe ‘Jelly Bean’ Bryant, cestista adottato dall’Italia, Paese che ha ospitato la classe cristallina del Kobe bambino, tra Rieti e Reggio Emilia, passando per Pistoia e Reggio Calabria. Tuttavia, per un tifoso Celtics, l’unico modo per dar voce a questa necessità senza risultare ipocriti è esprimere quanto dannatamente ci manchi detestare il nostro peggior nemico, Kobe.
Bryant faceva paura, sempre. Faceva paura il suo silenzio, lo sguardo penetrante che ha contribuito ad affiancargli il nickname di ‘Black Mamba’; facevano paura le sue movenze composte, che non concedevano un attimo di tregua al malcapitato avversario che quella sera aveva l’onere ed onore di cercare di marcarlo. Se poi tifi Boston Celtics, Kobe è Il Nemico, colui che ha legato il suo nome ai Los Angeles Lakers in modo indissolubile, rifiutando qualsiasi canotta che non fosse quella gialloviola degli angelini, ravvivando una rivalità con Boston che mancava dai profondi anni 80, quando le due franchigie avevano il volto di Magic Johnson e Larry Bird.
E poi Bryant si faceva odiare. Agonista ad ogni costo, ossessionato dalla perfezione, caratteristica ereditata dal suo modello assoluto, Michael Jordan, e altrettanto ossessionato dal bisogno di vincere più di chiunque altro. Non solo: vincere incidendo il suo nome nella storia, quasi si trattasse di un tipo umano costruito per gli sport singolari, costretto giocoforza a condividere le responsabilità con dei compagni che, nella sua prospettiva, non si impegnavano mai abbastanza per raggiungere gli stessi obiettivi. Di qui il divorzio burrascoso con Shaquille O’Neal, il centro più dominante della storia della pallacanestro, che aveva un carattere troppo forte ed egocentrico per condividere lo stesso spazio di Kobe: tre titoli insieme, ma troppi pochi riflettori riservati a ciascuno singolarmente. E allora sotto con altri sparring partner: Pau Gasol su tutti, con cui ha messo al dito altri due anelli di campione NBA, preceduti da una sonora sconfitta alle Finals 2008 impartita proprio dai Boston Celtics, poi vendicata nel 2010.
Me lo ricordo quel titolo del 2008, ricordo come abbiamo sculacciato Kobe. Godevo perché il collettivo aveva battuto il singolo, anche se non riuscivo a staccare gli occhi dal numero 24. Aveva perso ed era maestoso anche in quel momento, sapeva vivere dannatamente bene anche la sconfitta, quanto meno davanti alle telecamere. Mai una parola fuori posto, mai uno squarcio di umanità.
Perché allora Kobe Bryant manca anche a noi, che abbiamo speso notti intere a sperare che il suo fade-away jumpshot venisse sputato dal ferro? Perché manca anche a quella minoranza che non lo ha idolatrato e non ha mai voluto la sua maglietta nell’armadio? Riportarsi alla tragedia umana, che accomuna i sentimenti di tutti, sarebbe ruffiano e anche un po’ banale. No, a me Kobe manca perché nello sport l’Avversario, quello con la ‘A’ maiuscola, è la cosa più importante che ci sia. Sembra un paradosso ma non lo è, e lo capisco ogni giorno di più da quel maledetto 26 gennaio 2020, attraverso un processo di decantazione emozionale che non lenisce una ferita ancora aperta nel cuore di qualsiasi amante della pallacanestro.
Non se n’è andato il più forte di tutti i tempi, anche se ci si avvicina molto, né il modello umano numero uno da proporre ai nostri figli: egocentrico ed egoista, spudoratamente superiore ai comuni mortali e altrettanto fastidiosamente voglioso di rimarcarlo ogni sera. Non sempre a parole, anzi: infilare 40 punti in faccia agli avversari era probabilmente il suo vero linguaggio, quello che non lo costringeva ad una noiosa intervista ma gli permetteva di dire al mondo, anche quella sera, che lui era lui e gli altri non erano un cazzo, come insegna il Marchese del Grillo.
Però se n’è andato il più grande agonista che il mondo abbia conosciuto e, se com’è giusto che sia lo sport non deve per forza veicolare messaggi puritani, ciò basta e avanza per capire il vuoto che ha lasciato dietro a sé. Un cyborg costruito perfettamente per giocare allo sport più tecnico che possa pensarsi, incapace di riconoscere un fallimento se non a modo suo, chiudendosi in palestra dall’istante successivo alla sirena finale, per fare sì che non riaccadesse.
Una sola parentesi di umanità, mai chiarita fino in fondo. Giugno 2003: al Cordillera Lodge & Spa, un resort di lusso in Colorado, si consuma un rapporto sessuale tra l’allora venticinquenne Kobe e una receptionist della struttura, che il giorno dopo lo denuncia per una presunta violenza sessuale. Seguiranno lunghi mesi di udienze processuali, e una stagione giocata con la spada di Damocle del tribunale sulla testa, fino al ritiro dell’accusa da parte della ragazza e l’accordo risarcitorio in sede civile. Kobe si presenta davanti alle telecamere stringendo la mano della moglie Vanessa, ammettendo il tradimento e, visibilmente emozionato, si scusa pubblicamente con lei. Ecco, forse il Kobe-uomo è emerso solo nel momento più difficile della sua vita, quando si è trovato davanti ad un inciampo che il Kobe-atleta mai avrebbe perdonato a sé stesso.
A proposito: in quei mesi di voli su e giù tra le corti del Colorado e le arene dell’intera NBA, il figlio di Philadelphia fa registrare statistiche da capogiro, come se ancora una volta le gesta superumane in campo godessero di vita propria, svincolate dai mostri che gli occupavano la testa al di fuori del parquet.
Mi manca tutto questo: scommettere su un tuo cedimento, e se, come spesso, ciò non accadeva, onorarmi di aver ceduto le armi davanti ad un essere umano nato per giocare a basket. Nato per essere ammirato, perché una sequenza di movimenti in post-up di Kobe Bryant non aveva nulla da invidiare ad una sinfonia di Beethoven o alla Venere di Milo. Potrei evitare di usare la prima persona, perché purtroppo non ho mai potuto incrociarlo in campo. Ma i grandissimi illudono sempre nell’apparirci vicini, come se potessimo dialogarci davvero e avessero interesse a conoscere le nostre opinioni, o a sentire i nostri fischi. Per questo Kobe è stato anche un po’ mio, un po’ vostro.
Pagherei per tornare a quelle notti insonni del 2008 e del 2010, perché un altro Nemico così non l’ho mai osteggiato e ammirato allo stesso tempo, e sono certo che non ci sarà mai più. Ha ragione Michael Jordan: è difficile vedere persone con la sua voglia di migliorare giorno dopo giorno come padre, persona e amico. Migliorare è stata la sua ossessione, la stessa che non gli ha fatto godere a pieno dei suoi stessi successi, ma ha illuminato gli occhi di milioni di persone. Anche i miei, pur se è dura ammetterlo.
È straziante parlare di Bryant al passato, lo è esattamente allo stesso modo di quanto fosse un anno fa. Ma celebrarlo per la sua gigantesca statura sportiva è l’unico tributo corretto. Mi manchi, Kobe. Alla fine del giorno mi rendo conto di non essere mai riuscito ad odiarti davvero, non me l’ha permesso l’onestà intellettuale che dovrebbe albergare in ogni tifoso.
Sono certo che non riposi in pace: non sopporteresti riposare. Migliorerai per sempre.