Non poteva essere una finale qualunque, non è stata una finale qualunque, anche per loro che ormai sono abituate. Sara Errani e Jasmine Paolini, contro Kudermetova-Mertens (top ten nel ranking di doppio), hanno giocato una partita illogica per difendere il titolo al Foro Italico. Si pensava che lo slancio umorale di Paolini, reduce dalla vittoria del torneo in singolare, potesse fare la differenza e trascinare l'incontro verso la sponda azzurra sin da subito. Così non è stato, un po' perché Jasmine aveva poche ore di sonno nel taschino (gli impegni istituzionali di ieri sera, sommati al match programmato a mezzogiorno, non hanno aiutato). Un po' per i meriti dell'altra coppia, formata da due ottime singolariste, che nella prima mezz'ora di partita hanno fatto semplicemente spavento: solide al servizio, chirurgiche a rete e col fucile spianato da fondocampo. Sarita e Jas, senza chissà quali demeriti e senza quasi rendersene conto, si sono trovate sotto quattro a zero. È stato necessario un dritto sulla riga di Paolini per evitare il tonfo: sul killer point che avrebbe portato le avversarie a servire per il cappotto nel primo set, la partita è girata. Le condizioni ambientali sono cambiate in quell'istante, con Jas che ha tirato un urlaccio d'orgoglio nel cielo di Roma e Sara che, in coro, incitava il Centrale a rimettere le cose in ordine.
Mentre saliva il grido "Italia, Italia!", Errani-Paolini hanno ripreso il loro meraviglioso ritmo, quel flow che si snoda lungo i pallonetti profondi targati Sarita e che divampa nei ricami a rete di Jasmine. La rimonta, dopo il rischio baratro, è stata verticale, irrefrenabile. Kudermetova sul 4-1 e servizio non ha smesso di tirare bordate, ma queste al posto di rimbalzare in campo cominciavano ad attentare alla vita degli spettatori. Mertens, contagiata, si perdeva in una serie mistica di doppi falli, consegnando alle azzurre dosi di fiducia che non sono mai andate sprecate: dalla palla del possibile 0-5, Sarita e Jas hanno infilato sei game di fila per conquistare un primo set che poteva far deragliare il weekend dei sogni del tennis italiano.
Ma non è finita qui, perché non era questa la partita da vincere scioltezza, non era questa la giornata in cui Errani-Paolini potevano permettersi di brillare senza inciampi. Anzi, per giocare il loro miglior tennis dovevano sentirsi schiacciate, quasi umiliate, colpevoli di deludere pesantemente le aspettative. Il tutto per poi risorgere, per generare aritmie cardiache al pubblico del Foro: sotto 0-4 anche nel secondo set, l'intelligenza tattica di Sarita ha fatto la differenza, insieme alla sua capacità di spolverare le righe bianche calcolando in una frazione di secondo l'intensità del vento e le intenzioni delle avversarie. Kudermetova-Mertens si sono gradualmente imbrigliate nella ragnatela della ragazza di Bologna, che vent'anni fa esordiva nel circuito WTA. D'altra parte, quando Sarita urlava "Tua!", c'era sempre una Jasmine dietro a sorreggerla, a replicare con un "Dai, n'diamo!". Per un prevedibile scherzo del destino, Kudermetova-Mertens hanno rivissuto pari pari l'incubo del primo paziale, con l'aggravante di aver avuto la palla per vincere il secondo, un nevrotico passante lungolinea gettato alle ortiche dalla belga. Da lì in poi, per Sara e Jas, non ci sono stati più dubbi: vinciamo noi, ancora noi, sempre noi.
È il terzo titolo in doppio a Roma per Errani (vinse nel 2012 in coppia con Roberta Vinci), il secondo consecutivo per Paolini. Non accadeva dal 2009 che una tennista riuscisse a vincere singolare e doppio in un Masters 1000. Nella cornice degli Internazionali, bisgona tornare ai tempi di Monica Seles per scovare qualcosa di simile. Ma questi sono solo numeri, indicative ricorrenze storiche, ciò che conta è godersi queste giornate: Jas difficilmente potrà continuare a portare avanti singolare e doppio con questa intensità, Sarita durante la premiazione ha giustamente sottilineato che nel 2026 avrà 39 anni. Ci sarà, giocherà ancora? Non può saperlo.
Noi, ne siamo certi, vorremmo che Sarita e Jas ci incitassero per sempre. Adesso, però, sorridiamo: come prima, più di prima, anche se siamo sotto. Come le nostre ci comandano di fare.