Frattura da stress allo scafoide, infiammazione al piede sinistro, tendinite al ginocchio, problema all’adduttore, frattura da stress del terzo arco costale sinistro, displasia dello scafoide tarsale, polso, schiena e poi di nuovo piede, piede, piede. Nella carriera di Rafael Nadal niente è mai stato semplice. “Non mi sono infortunato, io vivo dentro un infortunio” ha detto dopo la delusione degli Internazionali di tennis di Roma, terra rossa di sua proprietà a cui è stato costretto, nuovamente, a rinunciare.
Sa che funziona così, soprattutto alla sua età: si riprende, fatica, digrigna i denti davanti al dolore, torna, vince. E tutto ricomincia ancora. Impossibile contare il numero di infortuni che nel corso degli anni, da quando era poco più che bambino, lo hanno fermato, e piegato. 20, quelli gravi, forse qualcuno in più. 21 come i suoi Slam, l’ultimo - quello che gli ha permesso di superare i rivali di sempre Roger Federer e Novak Djokovic - a 35 anni compiuti, poco prima di un nuovo stop obbligato.
Ma sa come si fa, Nadal. Sa come si soffre, sa come si torna. Lo sa da quando, destro per natura, gli consigliarono (o imposero, chissà) di diventare mancino. Mancino come Connors, come McEnroe. Lo sa da quando zio Toni, allenatore di tutta una vita, lo fregava, illudeva, metteva alla prova.
“Per molti anni ho fatto giocare Rafael con delle palline sgonfie, campi sporchi ed aumentavo la durata degli allenamenti senza dirglielo, perché mi interessava che migliorasse la resistenza in modo da rinforzare il carattere. Quando aveva 15 anni lo accompagnai a un torneo e notai che stava perdendo 5-0, giocando malissimo. Così decisi di avvicinarmi ed un mio amico mi disse che Rafael stava giocando con una racchetta che aveva le corde rotte. Glielo dissi e lui, guardando la racchetta con un’ espressione stupita mi confermò. A fine incontro gliene parlai e lui mi rispose che era talmente abituato ad essere lui in colpa, a pensare di dover far sempre meglio, che non pensò che la racchetta potesse essere rotta”. Così lo zio Toni Nadal, sulla sua forza fisica e mentale del nipote. Così sull’incapacità di pensare che possano essere gli altri, tutti gli altri, il problema, la cosa da aggiustare, rivedere. Così sulla dedizione che c’era a 15 anni e che non se n’è mai andata.
Neanche oggi che Rafael Nadal compie 36 anni, età di passaggio per tutti i tennisti. Oggi che da vincente assoluto, unico tennista con 21 Slam in carriera, potrebbe scegliere la via del ritiro. Basta dolore, basta infortuni, basta soffrire per ricominciare, tornare, provare. E invece no. Proprio oggi, nel giorno del suo 36esimo compleanno, Rafael Nadal torna sul centrale di Parigi, sulla terra rossa che negli anni gli è valsa il titolo di King of Clay, per giocare la semifinale di Roland Garros contro il 25enne Alexander Zverev dopo aver battuto ai quarti di finale Novak Djokovic in un match di più di quattro ore.
Neanche oggi cede, arretra, fa vincere il dolore. Si regala una sfida, un’occasione in più. Si riprende ancora una volta ciò che il dolore e la sfortuna hanno sempre provato a toglierli. E lo fa sulla terra rossa, dove è stato, è e sarà sempre, l’unico re.