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Il gioco degli occhi: una notte al Mugello con Guido Meda

  • di Cosimo Curatola Cosimo Curatola

2 giugno 2022

Il gioco degli occhi: una notte al Mugello con Guido Meda
Guido Meda racconta che la sera, una per ogni Gran Premio, prende e se ne va. Evade un pochino, in questo caso in moto dall’Autodromo del Mugello al Passo della Raticosa. Siamo partiti insieme finendo a parlare di piloti, di giornalisti e di tutto il resto. Perché? Lui dice “Perché siamo persone”

di Cosimo Curatola Cosimo Curatola

Guardarsi negli occhi è tutto se fai questo mestiere. Guido ci arriva in un attimo sintetizzando tutto con una storia: “Sai, io e Giorgio Terruzzi facevamo il gioco degli occhi. Ai GP, guardando i piloti”, mi spiega. “Prendi Andrea Dovizioso, lui è il numero uno. È semplicemente fantastico, vorrei che fosse qui a cena per fartelo capire. Comunque con Giorgio Terruzzi facevamo questa cosa qui, era bellissimo: guardavamo i piloti, nella conferenza stampa del giovedì, cercando di indovinare se avrebbero potuto vincere, come sarebbero andati. Figo. Stare assieme ai piloti quando si è in pochi è stata una grossa botta di culo che ho avuto. Tu sei disarmato e loro si fidano, finalmente lontani da tutto il resto”.

Guido è pilota anche lui. È rabbioso con il suo strumento, la voce, che suona forte e autoritaria come quella di un padre, però nei modi è morbido, addirittura dolce. I piloti fanno la stessa cosa: picchiano sulla manetta del gas senza riguardi per niente e nessuno, ma quando li vedi guidare sembrano leggeri e delicati come ballerini a teatro. A parlarci a cena, con Guido in pochi, è stata una grande botta di culo che ho avuto.

"Sai, ho il sospetto di non essere un gran giornalista"

È il venerdì del Mugello, nel paddock la gente comincia ad andarsene. Verso la San Donato, tra le hospitality della MotoGP e i box di MotoE, c’è il grosso camion bianco di Sky con lo studio da un lato e il gabbiotto per le telecronache dall’altro. Fuori, Guido Meda chiacchiera col fratello Pietro. Mi dico mi presento, vado a salutarlo. L’ultima volta che avrei potuto farlo era al funerale di Cristiano Lucchinelli cinque anni fa, ma non era il caso e lasciai stare. Più avanti Meda mi dirà che non ha mai avuto un grande rapporto con Marco, senza aggiungere però che a salutare suo figlio alla Basilica del Piratello di Imola c’era anche lui.

Mentre saliamo le scale che portano al parcheggio del paddock mi chiede se ho una moto. E io, lì vicino, ho parcheggiato una Ducati Panigale V2 presa in prestito direttamente dalla fabbrica per la settimana del Gran Premio. Mi dice dai, andiamo a fare un giro sui colli, vieni anche tu. Mi carica sul sellino della sua Multistrada V4 Pikes Peak e mi porta al mio parcheggio, assieme a noi c’è la ragazza che l’ha aiutato quando si è fatto male in Austria con la moto da trial: “Non hai idea del casino, quella volta. Qualche sito ha scritto che avevo avuto un incidente gravissimo e mia moglie, che ha l’aggregatore per le notizie, si è proprio preoccupata. Quella volta ho promesso un giro in moto a Dominika”.

Guido conosce le strade e segnala un po’ tutto, autovelox compresi, mentre fa scorrere la moto tra le curve come un maestro di sci: velocità, ritmo, cambio, piega. Con DominikaRides (che abbiamo scoperto poi essere top model, motociclista, influencer, social media manager, youtuber, presentatrice…) mi sento un po’ come fossimo Hansel e Gretel in mezzo alla foresta. Ci fermiamo a un incrocio per un paio di foto, le chiedo se si rende conto che un Guido Meda, fuori da ogni logica e schema, ha deciso di portarci a fare un giro in moto dopo una lunga giornata di lavoro. Ridiamo, lei mi risponde che “Guido è una leggenda anche per noi”. Lui nel frattempo ci ha preso gusto, chiama lo Chalet Raticosa chiedendo se sono aperti e se ci fanno qualcosa da mangiare: “Ragazzi, saranno 15 chilometri, lassù è bello”.

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"Oh, saranno 15 chilometri"

“Mi chiedi perché? Siamo persone, no?”

Quando arriviamo è come se Maradona fosse venuto giù dal cielo fino ai Quartieri Spagnoli per mangiarsi una margherita su di un tavolo rosso della Coca-Cola. Fortunatamente le persone sono un po’ di meno. Ci sediamo, parliamo. Di moto, di famiglia e di tutto il resto: “Vorrei andare a stare in campagna, un po’ più lontano da Milano, ma coi miei figli che studiano mi sa che me lo scordo”. Ogni quindici minuti si interrompe per scattare una foto, un video e chissà che altro con chi glielo chiede. È come avere un neonato che strilla a fianco: ti alzi, lo coccoli, lui si calma e torni a sedere. Lui lo fa con lo stesso affetto.

Gli dico che è il mio primo Gran Premi da giornalista vero, di quelli che stanno nel paddock per quattro giorni e guardano i piloti negli occhi quando fanno le domande. Ed è fondamentale, perché più della classifica e dei punti, quello del motore è uno sport fatto da persone e dalle loro storie. Guido mi dice che è così raccontandomi la storia degli occhi e poi cazzeggia, ride, tira fuori gli aneddoti. Ascolta anche, sia me che la lunga lista di cose che Dominika ha fatto nella sua vita: lo spot per Louboutin, le copertine di Vogue, il suo servizio più bello per il profumo di Agent Provocateur, la sua Ducati Scrambler. Guido ha la pazienza di un nonno ed è curioso come un bambino. Va a finire che ci offre la cena e, sulla via del ritorno, l’anteriore della sua Multistrada prende pieno un cinghiale nel buio della Raticosa. In qualche modo non cade, la moto neanche un graffio. Quando arrivo a letto è più mattina che notte e comincio a buttare giù appunti nell’iPhone.

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La domenica dopo la gara, con il paddock che si svuota, vado per salutarlo e chiedergli se posso scrivere questa storia. Lui ride, dice che sapeva dal primo momento che sarebbe andata così. Ha la voce un po’ roca per il Gran Premio, si alza dalla seggiola e cominciamo a passeggiare. Mi porta in giro per il paddock e saluta tutti, abbracci, chiacchiere. Un casino di gente con cui si mette a parlare di gusto. Poi trova un box vuoto, sul muro ci sono appiccicate le strategie per le gomme lasciate lì da chissà quale squadra. Alza la serranda del box come un adolescente che sfoglia Playboy e usciamo in pit lane. “Senti che bene che si sta, senti il profumo degli avanzi. Le gomme, la benzina”. Si siede, si ferma: “Devo fare una promo di sette secondi per Barcellona, fa conto che è un titolo. Oh, sette secondi sono pochi”. Mi chiede se ho qualche idea, poi se la sistema da solo. Gli chiedo perché lo fa, perché mi ha portato in giro, perché saluta tutta questa gente. Mi guarda come si guarda un coglione e alza le spalle: "Perché è giusto così, ed è anche bello. Finito di lavorare fai da mangiare, no? Ho un ruolo che a volte sa essere complicato, ma questa è una grande famiglia, sono persone. Siamo persone, no?”.

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“Aspetta, ti faccio una foto che poi cercarle è un casino”. “Perché, non vanno bene quelle che ci sono?”

Guido trova i suoi sette secondi magici e ci incamminiamo per tornare indietro: “Sai, ho il sospetto di non essere un gran giornalista, anche se c’è stato un periodo in cui l'ho voluto con tutto me stesso. Ad un certo punto mi sono reso conto che non posso farcela, che non so dare fregature alla gente. Mi hanno fregato tante volte e io non ci riesco. È importante però, non dare fregature alla gente. Perché poi che ti resta?”. Il paddock, che fino a un’ora prima era un carnevale colorato, sta mostrando solo l’asfalto: “Pensa, anni fa abbandonavano un sacco di roba qui: pezzi di carena, gomme, ricambi… non ci rendevamo conto del tesoro che c’era e lasciavamo tutto anche noi”. Alla fine ci salutiamo.

Il gioco degli occhi è quello che ti fa amare un lavoro che può essere complicato, frustrante, a volte senza sosta. Le persone lo salvano: le conosci e le vivi, ti lasciano qualcosa e non smettono mai di essere interessanti. Guido Meda è un entusiasta. Vuole capire, si interessa, scherza, probabilmente è anche capace di incazzarsi davvero. Sapeva benissimo di farmi un regalo e l’ha fatto al suo meglio investendo il tempo che è sempre poco, una cena, qualche confessione e un pezzettino d’anima che chissà dove va a finire. Si sarà detto “Fanculo, perché no?”.

Il lunedì, un po’ a malincuore, riporto la moto a Borgo Panigale. Il GP è finito e si torna a casa. Parcheggio e lo vedo lì, che ha appena messo a posto la sua. Ci facciamo una risata, penso che ormai lo avrò esasperato: “Oh, ad ascolti siamo andati bene, abbiamo fatto un milionazzo. Ti serve un passaggio per Milano?”.

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