Jerez è una pista stretta, a Jerez manca il grip. La conoscono tutti, e tutti sanno che per Ducati è sempre stato difficile tirarne fuori un buon risultato. Oggi invece le cose sono andate diversamente, con una storica doppietta rossa che mancava da Brno 2018, quando Jorge Lorenzo chiuse secondo dietro ad Andrea Dovizioso. Per il Dovi, nonostante un terzo posto nel 2020, Jerez è stata sempre una pista ostica, di quelle da affrontare tappandosi il naso sperando di limitare i danni. Lui quella moto l’ha sviluppata, l’ha portata a vincere ed ha sfidato Marc Marquez battendolo in più occasioni. Ma quando conosci troppo la moto finisce che non ti adatti più a lei: la vorresti diversa, migliore. Perché altrimenti pensi di non poter vincere. Un problema che in MotoGP arriva con l’esperienza, lo stesso problema di Valentino Rossi.
In questo senso avere tante moto in pista, per Ducati, è stato utilissimo: hanno capito che se la Desmosedici va forte quasi ovunque con piloti diversi, un modo per farla volare ci deve essere. Lo hanno capito anche i piloti ed hanno stravolto l’approccio, cercando di tirare fuori sempre il meglio da sé stessi prima ancora che dal mezzo meccanico. Ed è quello che, conti alla mano, è costretto a fare anche Franco Morbidelli, oggi ottimo terzo (e primo pilota Yamaha) nonostante quella che è stata battezzata come “la moto da museo”.
Oggi Jack Miller è partito bene e non ha mai mollato il colpo, così quando Fabio Quartararo ha dovuto cedere al dolore si è messo in testa ed è andato a vincere. Più strategica la gara di Pecco Bagnaia, che da un lato ha preservato le gomme per il finale di gara ma dall’altro ha perso tempo dietro ad Aleix Espargarò e Franco Morbidelli. Entrambi hanno corso con la consapevolezza di poter vincere, non certo di dover limitare i danni. Vincere e basta.
Se è vero che Ducati non ha vinto in Qatar, dove partiva come grande favorita, è anche vero che la Yamaha non ha vinto a Jerez. Si sono invertiti i ruoli, anche complice la sindrome compartimentale del francese che però si era riversata sull’australiano a Losail. Perché anche in questa MotoGP piena di elettronica ed aerodinamica, quello che conta è ancora la capacità di adattamento, la mentalità del pilota. È ancora, e sarà sempre, il pilota.
Forse a Borgo Panigale non sono i grandi favoriti al titolo, ma al quarto Gran Premio della stagione si ritrovano con un pilota in testa al mondiale e, contestualmente, a far suonare l’inno australiano come se gli anni di Stoner non fossero passati.
Al contempo sono arrivati tanti miglioramenti tecnici, su cui spicca l’holeshot che permette alle moto bolognesi di imporsi al via (e che manca a Yamaha), a cui si aggiungono la nuova carena per convogliare i flussi d’aria, per finire con il motore desmodromico che continua ad avere una potenza spaventosa. Ma anche la squadra e l’approccio sono cambiati: si fa team building, i piloti sono di un’altra generazione e guidano la moto in un’altra maniera, cercando la percorrenza anche se la Desmosedici vola sul dritto. Si adattano il più possibile.
Ora Ducati si prepara al GP di Francia (dove si correrà il 16 maggio) con la consapevolezza di aver fatto un grande salto in avanti. Oltretutto, almeno per le prossime tre gare (Le Mans, Mugello e Catalunya), il tracciato gioca a favore. Certo, per il momento di gare ne rimangono 15, ma l’inizio è stato più concreto di quanto ci si potesse immaginare.
Forse, dopo quattordici anni, Borgo Panigale può davvero tornare sul tetto del mondo.