“Che Guevara era uno stupratore guerrafondaio”, così nei giorni scorsi Maurizio Nerini, consigliere comunale di Fratelli d’Italia a Pisa. Immediate le reazioni da parte del centrosinistra locale. Seduta sospesa, e poco dopo, cavallerescamente, Nerini si scusa: “Le mie fonti non erano verificate”. Quanto alla frase completa, diceva così: “Ernesto Che Guevara era un noto personaggio guerrafondaio, stupratore, chi più ne ha più ne metta”. Le ragioni del disappunto del meloniano sotto la Torre verso il “comunista” Guevara vanno inquadrate nell’intenzione, ai suoi occhi invece immaginiamo ammirevole, da parte del Consiglio di mettere all'ordine del giorno una proposta della maggioranza – di centrodestra, appunto – di offrire la cittadinanza onoraria pisana al Capar, il centro di addestramento dei paracadutisti della Folgore. Proprio per difendere l'iniziativa, ribaltando volti e nomi, Nerini ha fatto riferimento a un altro comune in provincia di Pisa che aveva invece scelto di dare la cittadinanza all’uomo che a Cuba è onorato - cristologicamente, va detto come “El Guerrillero Heroico”. Per ulteriore completezza le esatte, identitarie, parole di Nerini grigioverdi suonavano così: "Sì, è un voto politico, come quello che fu dato, per esempio, a Che Guevara a San Giuliano. Noto personaggio guerrafondaio, stupratore, chi più ne ha più ne metta. Va bene?". Segue la sospensione della seduta da parte del presidente del Consiglio Alessandro Bragagna e a quel punto, melodrammaticamente, la storia trova il suo sipario: "Qualcuno difende Che Guevara di voi? Va bene, se viene il signor Che Guevara gli chiedo scusa". Piuttosto improbabile che Guevara possa presentarsi a Pisa per ragioni note, l’uomo, il “guerrigliero”, il “comandante” è morto, assassinato dai ranger boliviani accompagnati dagli uomini della Cia, nel lontano 1967, lo stesso anno in cui morì, invece nel suo letto, mia nonna; destini distinti. Sia detto per inciso, l’icona del Che negli ultimi decenni abbiamo avuto modo di ammirala, immagini note, su un oceano di t-shirt e poster di ragazzi che riconoscono in lui un sentimento “rivoluzionario”, ma altrettanto, non sembri un paradosso sebbene lo sia, nella cella dove dimorava Angelo Izzo, uno dei tre assassini, e in questo caso veri stupratori, del Circeo, e ancora tatuata sul braccio di Diego Armando Maradona. In verità, onestamente parlando, dato che non è poi questo il punto, discutendo sul suo mito, sarebbe molto meglio muovere dalla domanda di fondo: perché la persistenza del suo mito accompagnato da uno scatto fotografico fattosi, appunto, icona, sticker, vessillo, pronunciamento antagonistico?

Era, com’è noto, somaticamente “bello” e fotogenico, un sorriso impagabile, bello e incurante d’ogni possibile avvenenza, ma era anche argentino, ossia figlio di una nazione poco amata dagli altri popoli latino-americani, essendo i cittadini di Buenos Aires ritenuti supponenti come certi europei, parigini o londinesi delle Ande. Perfino a Cuba, per dirla interamente, viene, sì, mostrato in mille murales, ma con limitato affetto da parte della popolazione locale, un po’ perché, si è detto, argentino d’origine, dunque, fra tutti i popoli del continente latino-americano, convinto d’essere “un caz*o e mezzo”, e un po’ perché privo di quel sentimento di “cedevolezza” gesuitica che gli indigeni, poco importa se dell’Avana o di Oriente, riconoscevano invece all’altro, a Fidel Castro, sempre ai loro occhi, Fidel, tutto sommato, appariva come una sorta di zio, severo, ma colmo di parole. Senza contare, tornando al Che, politicamente parlando, un’incapacità oggettiva come ministro dell’economia (le banconote, i pesos cubani, portavano la sua firma: Che, neppure il cognome per esteso) o anche di quando, almeno secondo una leggenda dell’internazionalismo proletario e dunque della (falsa) solidarietà fra partiti fratelli, ebbe venduta una flotta di spazzaneve dai “compagni” rumeni del “Conducator” Nicolae Ceausescu: “… ma si è mai vista la neve, a Cuba, no, Che, si è mai vista?”, sembra che lo abbiano investito così durante un comitato centrale del partito, sembra. Nella sua parabola subito fuori dalle pendenze istituzionali, ne brilla la figura d’“esportatore” della rivoluzione, Guevara, velleità degli anni di Tricontinental, pretendeva di creare “10, 100, 1000” focolai di guerra di classe, la Bolivia come un nuovo Vietnam, almeno dopo l’impresa fallimentare vissuta laggiù in Congo, comprendendo che la disciplina non era materia cui le popolazioni afro erano tagliate. Nell’icona di Ernesto Guevara, trasfigurato in Che, vive semmai il guerrigliero che nel frattempo, durante una notte di Capodanno, ha già trionfato insieme a Fidel e Camilo Cienfuegos nel paese di Batista, Cuba. Guevara e la sua aureola barbuta nell’apoteosi della conquista di Santa Clara, come ripete la canzone che Carlos Puebla, in anticipo di due anni sulla scomparsa, ha cucito addosso alla sua divisa, alla sua memoria, alla sua morte in Bolivia, all’immagine della lavanderia-obitorio dove i militari boliviani di Barrientos e gli agenti della Cia vollero mostrarne il cadavere: “Seguiremos adelante/ como junto a ti seguimos/ y con Fidel te decimos:/hasta siempre Comandante”. La simmetria tra Ernesto e Cristo morti nello sguardo di Mantegna come testo pittorico-fotografico a fronte. Anche il paese degli odiati yankee anni fa gli ha fatto dono di un film. Perfino a dispetto della poesia colma di melanconici dubbi della dopostoria comunista e le sue mode che gli dedicò nel 1979 l’insospettabile scrittore tedesco Hans Magnus Enzensberger nel suo “Mausoleum”: “Ormai nella metropoli di lui parla/ soltanto una boutique, che gli ha rubato il nome. In Kensington High Street ardono i bastoncini d’incenso/ accanto alla cassa siedono gli ultimi hippies, fiaccati,/ irreali, come fossili, e senza quesiti, e quasi immortali…”.

Quando, vent’anni e oltre fa, il sottoscritto, modestamente ragionando sull’immancabile “scatto” realizzato per caso un giorno di marzo del ‘60 dal fotografo cubano Alberto Korda, lo stesso che Giangiacomo Feltrinelli avrebbe scelto per illustrare l’edizione italiana del Diario boliviano inconsapevole dell’impatto iconico che avrebbe poi avuto, quando l’empio Abbate provò a dire su “l’Unità” che sarebbe stata meglio per tutti “cancellare l’icona del Che” (sic), questi si trovò contro l’ostilità illimitata di tutti, dai custodi della teologia cristologica comunista d’apparato e non (e, s’intende, da centro sociale occupato autogestito) agli amici in clergyman di “Famiglia cristiana”, dai non meno risentiti avversari del “Secolo d’Italia” ai carissimi Enzo Biagi e Indro Montanelli: proprio quest’ultimo, Indro, peccato avere perso il ritaglio di allora apparso sul suo “Corsera”, non poté fare a meno di difenderne l’ombra, il sentire, la purezza. Senza contare le centinaia di lettere quasi minatorie di escursionisti della rivoluzione terzomondista a guardia del sacello vuoto del bel martire, segno evidente che non era consentito a nessuno d’immaginare l’eroe ormai settantenne in visita in Italia, scorgerlo fra gli ospiti dei “Costanzo Show” insieme all’amico Alberto Granado per la promozione dell’ennesimo diario, immaginarlo lì, simile a uno parente già postumo, nel silenzio della gloria sepolta dal mal di prostata, dinanzi a un pubblico interessato semmai alla parodia del Vangelo dell’allora irrinunciabile Giobbe Covatta. Anche la città di Carrara, terra d’Apuania anarchica, dopo avere onorato Giuseppe Pinelli, custodendone i resti mortali nel cimitero di Turigliano, ora insieme a lui anche sua moglie Licia, accanto ad altri indimenticati militanti libertari, il simbolo della fiaccola inciso sul marmo, sempre per irregolare amor d’anarchia, ha innalzato tempo addietro un monumento al comunista argentino Ernesto Che Guevara. La sindaca, fascia tricolore sul petto, sceglie di portare con orgoglio civile il proprio sigillo cittadino partecipando in prima fila all’evento. Le stavano accanto anziani militanti, svettava una bandiera rossa di Rifondazione comunista, pochi i pugni chiusi sollevati, infine riecco il canto di Carlos Puebla che altrettanto si alza: “Aquí se queda la clara, la entrañable transparencia de tu querida presencia, Comandante Che Guevara…”. Anche allora, su “Libero”, Francesco Storace, in luogo dell’ultimo pervenuto, il pisano Nerini, ha avuto cura di chiosare l’evento con piccata acredine plasticamente meloniana: “Ma se in Italia c’è il fascismo o suoi derivati, possiamo dire che da Carrara il comunismo non sloggia mai? Mentre si cercano camicie nere immaginarie, provate ad affacciarvi oggi nella città toscana, dove si inaugura un monumento al guerrigliero argentino che risponde al nome di Ernesto Che Guevara, non esattamente pacifista”. La patente impropria di stupratore non gli era però stata ancora consegnata. Ignorando forse, non sembri un paradosso, che perfino molti “neofascisti”, accanto alle foto di Evola, Codreanu e Leon Degrelle, riconoscono nel proprio pantheon visivo ideale il volto di Guevara. Lo stesso Angelo Izzo, assassino del Circeo, in cella, anni addietro, mostrava la bandiera rossa col volto di dell’eroe comunista. Paradossi della mente in questo caso davvero criminale. L’ho già detto che era il 1997, anniversario tondo, quando, proprio su l’Unità, scrissi un articolo interrogandomi su quanto l’avvenenza della persona, del maschio Guevara, padre sessualmente, questo sì, munifico, avesse contribuito alla diffusione quasi cristologica immediata del suo mito, il Che che immaginava il “piccolo motore dell’avanguardia rivoluzionaria pronto a mettere in moto il grande motore dell’insurrezione di massa”. Il suo stesso soma, come promessa allegorica di riscatto sociale.

Per l’occasione, accanto alle critiche di molti militanti di sinistra, il Che nel cuore, perfino Indro Montanelli intervenne, nero su bianco, sul Corsera in difesa dell’icona intoccabile. E con lui, dimenticavo, pure Enzo Biagi e addirittura sulle pagine di “Avvenire”, giornale dei vescovi italiani, non la presero bene. Nel tempo della Dopostoria, direbbe Pasolini, davanti alla motosega anarco-populista di Milei, argentino come l’altro, tutt’altra fotogenia, basette narcisistiche al posto di una barba da sierra, il volto di Guevara appare addirittura ancora, forse sempre più, apotropaico, intatto, rassicurante, quasi a restituire un’idea generosa, assai oltre le contraddizioni che al guerrigliero assassinato dai ranger boliviani nel 1967 molti storici hanno imputato, ripeto: l’inettitudine come ministro dell’economia, cioè l’essersi fatto vendere degli spazzaneve dalla Romania di Ceausescu, avvenne quando era a capo del ministero dell’industria; a Cuba, si sappia, ripeto ancora, non se ne è mai visto un solo fiocco, e ancora l’intransigenza ferrea verso i suoi stessi compagni di lotta nella Sierra, diversamente dalla tolleranza “gesuitica“ di Fidel Castro, il “gringo” Guevara non da tutti viene ricordato laggiù con altrettanta emozione. Ernesto Guevara, la semplice colpa d’essersene andato “giovane e bello”; nessuno ricorda invece più Camilo Torres, prete, teologo colombiano, che altrettanto imbracciò le armi nella convinzione che “dovere d’ogni cristiano è fare la rivoluzione”. Cosa aveva in meno di Ernesto Camilo per non meritare gli stessi insulti dal meloniano Maurizio Nerini da Pisa?
