Infertainment (o Enfertainment)
Parasocialità e fine del giornalismo, podcast e informazione esplosa: rotoliamo giù serenamente, e se possibile ancora più velocemente, verso l’inferno dell’informazione, l’Infertainment (o Enfertainment). Acceleriamo l’inevitabile: prima i “fatti” erano le notizie, i giornalisti li verificavano e li raccontavano, e il pubblico veniva informato. Adesso la notizia è chi racconta, i “fatti” sono il pubblico, e i giornalisti amen. Lamentarsene sarebbe come voler ancora fare i giornalisti, già inchiodati da Karl Kraus: «Non avere un’opinione e saperla esprimere, questo fa di uno scribacchino un giornalista», il cui senso, ovviamente, come in tutto Kraus, va ribaltato: i veri giornalisti non hanno un’opinione. E questo – bene chiarirlo subito – non è più “fattibile” nell’era dei social, che è l’era dell’opinione incontrastata. Che poi il genere umano creda di poter avere un’“opinione” fa già ridere così.
Parasociale
“Parasociale” è stata scelta come parola dell’anno del 2025 dal Cambridge Dictionary, e non è altro che la parola nuova di conio del vecchio divismo dei telefoni bianchi: descrive il forte legame unilaterale (siete voi che vi fate le fantasie, la persona che adorate, di voi, se ne fotte – e direi anche giustamente) che le persone (persone, oddio) sviluppano con celebrità, influencer, personaggi dei media. Ecco, la marmaglia parasociale non vuole “notizie”, vuole parasocialità: il pubblico (che è una parolaccia: quando sento parlare di pubblico mi viene in mente un reato, atti osceni in luogo pubblico) non vuole sapere cosa accade, vuole sentire parlare il suo divo di riferimento, sapere la sua opinione, pensarla come lui.
Il pubblico non vuole informazione, vuole una relazione
Una volta il divo (da divinità) di riferimento, da “imitare”, era il Cristo (imitatio Christi), o il Buddha (diventa Buddha), o Marilyn Monroe, mentre i giornalisti si chiamavano – in Italia, scrivo in italiano, devo parlare di questo buco chiamato Italia – Enzo Biagi, Indro Montanelli, Giorgio Bocca. Oggi le notizie (ossia le opinioni) passano attraverso Fedez con il suo Pulp Podcast, Welcome to Favelas, Giuseppe Cruciani (che però, probabilmente, ha capito quello di cui parlo e lo mette in pratica). Anzi, persino i giornalisti cercano di coltivare un qualche culto della personalità, come Andrea Scanzi o come Selvaggia Lucarelli (che è una bravissima giornalista): hanno compreso che il pubblico non vuole informazione, vuole una relazione.
Comprare una mente, tutto compreso
È solo, sperso, vive una vita che detesta, non riesce a pensare data la mole di input che non riesce a processare, così delega a chi sente “vicino” (anche se “parasocialità” sottintende che il “vicino” sia lontanissimo) di pensare al suo posto, di guardare il mondo con gli occhi, appunto, della celebrità. «Perché dovrei pensare io, che non sono nessuno, se posso pensare quello che pensa una celebrità?» È come comprare una mente, tutto compreso (caricabatterie, tastiera, custodia), in offerta su un sito di e-commerce.
Acceleriamo
D’altronde non esiste un’alternativa. Anche il giornalismo cosiddetto “tradizionale” è una questione di affetto: di certo non si compra o si scarica da Telegram un quotidiano per trovare una notizia verificata, ma per leggere un’opinione la più simile alla nostra (sempre una questione di “affetto”, in fin dei conti: ogni uomo è affezionato alle proprie idee, e anche questo fa molto ridere, perché c’è ancora gente che si fida di se stessa).
Il giornalismo è finito. Personalmente sono convinto che non sia mai esistito (non si può commisurare la conoscenza del mondo agli accadimenti di un giorno; il “quotidiano” serve per cibarsi, defecare, fare la legna e poi confrontarsi con il sistema solare, non per sapere chi ha ammazzato chi o chi ha vinto le elezioni e dovrà occuparsi del buon funzionamento delle fogne – questo dovrebbe fare la politica, invece credono chissà che cosa, questi scalmanati). Ma comunque, dando per reale l’assunto che il giornalismo sia in qualche epoca esistito (è una finzione, ma devo usare le parole dell’esistenza finta che vivete), esso non esiste più.
Esistono relazioni, tifoserie, identificazioni, hype, celebrità, sponsorizzazioni, merci (il divo è una merce, cosa pensavate?), engagement, view, SEO. Insomma, esiste il “mondo” come lo abbiamo sempre conosciuto: tondo, brutto e coglione. L’infertainment è il giornalismo che si merita. Io consiglierei di dargliene sempre di più. Perché prolungare questa agonia? Acceleriamo.