Le perfezioni di Vincenzo Latronico è un libro smilzo, 144 pagine, e non ce ne volevano di più per raccontare ed esaurire una generazione, la cosiddetta Gen Y, che è un guscio vuoto, un guscio vuoto decorato, un uovo di Pasqua senza sorpresa, forse senza neanche il cioccolato: un packaging, insomma. È stato inserito, meritatamente, nella lista dei 100 migliori libri pubblicati nel 2025 in America secondo il New York Times. E innanzitutto è proprio la misura che ti spiazza: 144 pagine, sembrano poche, ma leggendolo ci si rende conto che proprio queste ci volevano e non una di più per raccontare un universo-mondo, quello della Gen Y (tra i 30 e i 45 anni, più o meno), fatto di schiavi della superficie, incapaci di qualunque narrazione che non sia un catalogo di cose “cool”.
È possibile scrivere un romanzo su una generazione senza “narrazione”? No. E infatti il libro di Latronico non sembra un romanzo ma un saggio. Non c’è un dialogo e l’unico motore dell’azione sembra essere quello di apparire, in qualche maniera, fighi. È il, anzi IL, romanzo della “bolla” o delle “bolle” algoritmiche, e per questo estremamente “provinciale”: i protagonisti, per quanto vogliano darsi aria di gente di mondo (fanno due viaggetti in croce e si sentono viveur), sono due paesani, due paesanazzi, due scesi dalla montagna con la luna piena, come tutta la Gen Y, del resto. Noi della X abbiamo fatto tanto per sprovincializzarci e all’improvviso ‘sti qua, intendo il 99 per cento dei nati tra il 1980 e il 1995 (anno più, anno meno), hanno rimpicciolito (o si sono ritrovati con) il cervello fino a renderlo capace soltanto di vasche al Corso.
Così i protagonisti del romanzo (ma continuo a ritenerlo un saggio) di Latronico vanno alle mostre ma non sanno né perché né cosa stanno guardando, e in quelle forme vedono soltanto le tendenze utili che arriveranno nel design dei biglietti da visita dei loro clienti (sì, c’è American Psycho dentro, ma impoverito dal materiale che Latronico tratta: miserevole) o nelle loro pagine web. Vivono in funzione delle doghe dei parquet e delle piante, del quadrato da fotografare senza alcuna attenzione alla visione d’insieme, che sarebbe, appunto, la “narrazione” o il “romanzo” che questa generazione non ha, tanto che il “loro” romanzo generazionale, ossia questo, non è un romanzo. È un catalogo sfogliabile, di poche pagine, di un qual certo insieme di design; leggendolo ti accorgi che i protagonisti, come tutta la Gen Y, sono schiavi: la loro è una vita “urban” e tutte le città sono luoghi di schiavitù (nascono per questo le città: prima luogo di mercato e commercio, poi, dopo la rivoluzione industriale, luoghi di schiavitù in cui anche i “liberi professionisti” sono altrettanto schiavi — ne parlo estesamente in un libretto trascurabile che è il contrario de Le perfezioni, anche se altrettanto, anzi molto di più, breve: Manifesto per le città alla fine del mondo).
Tom e Anna, sono i nomi dei protagonisti, ma potrebbero chiamarsi X e Y: credono davvero che stare chiusi in una stanza del loro appartamento a pitillare ossessivamente su una gabbia tipografica o sulla scelta di un font sia “indipendenza”, credono veramente di respirare aria internazionale soltanto perché stanno a Berlino e ci sono i bovindi. Si rendono conto, per un attimo, che la generazione successiva alla loro sia molto più ricca (e certo, è la generazione delle start-up tech, non quella delle start-up di schiavi al servizio di) e infine si “salvano” grazie a un’eredità che li fa rifulgere dello splendore che hanno sempre inseguito: quello dei camerieri; un resort in campagna, affittacamere insomma.
Quanti ne conosciamo di “designer” così? La valle di Noto, che non a caso compare nel libro, ne è stracolma: anzi, si dice che i falliti di Milano vengano a fare i designer nella capitale del barocco (rovinandola, ovviamente, ma sono gusti), dove — non a caso — si sono sposati Fedez e Chiara Ferragni. È una vita tendente allo “smalto”, quella della Gen Y, ma è lo smalto di un water.