Mohammad Hannoun è il presidente dell’associazione palestinesi in Italia. È stato arrestato, insieme ad altre 7 persone, dalla Direzione distrettuale antimafia di Genova ed è stato definito un “membro del comparto estero dell’organizzazione terroristica Hamas”. Altre due persone sono indagate ma sono attualmente fuori dal Paese, in Turchia e a Gaza. L’accusa è di aver finanziato per 7 milioni di euro il gruppo terroristico palestinese attraverso varie realtà, tra cui l’Associazione benefica di solidarietà col popolo palestinese, l’Organizzazione di Volontariato e l’Associazione benefica La Cupola d’Oro che ha sede a Milano. Le indagini pare siano iniziate subito dopo l’attacco del 7 ottobre 2023 e hanno portato, per ora, a questi primi arresti. Gioiscono tutti, Giorgia Meloni, Matteo Piantedosi e molti giornali, tra cui Il Tempo, che si sono occupati di questa storia negli ultimi mesi.
E fanno bene. La presunzione di innocenza vale per tutti, ma questi arresti sorprendono meno di altri, visto che il movimento sotterraneo che fa dell’Islam una delle forze che potrebbero cambiare il volto dell’Occidente nei prossimi decenni si muove da molto tempo proprio in questo modo, attraverso una strategia che, come ricorda il giornalista Giulio Meotti nel suo libro, viene definita “dolce conquista”, una sorta di crociata a bassa intensità che porta a espugnare sempre più città, sempre più Paesi e sempre più realtà europee attraverso finanziamenti (dal calcio all’editoria, passando per i media), istruzione e politiche di accoglienza, sfruttate con la complicità (o stupidità) di molti partiti a sinistra che, avendo perso consensi tra le classi medie e basse, cercano voti tra le sacche di immigrati (un caso istruttivo è quello di Melenchon in Francia, fino a pochi fa convinto sostenitore del divieto di uso del velo in pubblico, che ora invece difende).
Ma bisogna ricordare che la presunta complicità materiale con Hamas è solo la punta di un iceberg. Da anni la sinistra si è convertita a questo genere di battaglie. Scordato Marx, si è posta come obbiettivo quello di appoggiare rivoluzioni islamiste più o meno mascherate, come quella algerina e iraniana (ricordate le cordate di filosofi francesi che sbavavano dietro la lucente utopia di una Arabia socialista?), fedele a una cattiva interpretazione della dialettica (ma si potrebbe dire che già l’interpretazione marxista della dialettica hegeliana presentasse vari problemi) è ora interessata soltanto allo scontro, all’opposizione, alla guerra eterna e senza contenuto contro i padri e le madri, contro la società che li ha cresciuti, colti e più o meno benestanti: l’Occidente. Per cui va da sé che la cultura palestinese debba essere tollerata se paragonata alla condotta criminale di Israele, e cioè dell’Occidente.
Questa forma di massimalismo antioccidentale viene rappresentata al meglio da Francesca Albanese, che parte con un report per l’Onu molto interessante in cui si accusa Israele di genocidio, si passa a un secondo report in cui si elencato le aziende che fanno affari grazie a questo massacro e si finisce con un terzo report in cui si accusano vari Paesi occidentali di essere complici del genocidio. Di fronte a queste forme magiche di antioccidentalismo, declinato stavolta come antisionismo (e, in parte, in parte, come antisemitismo) serve fare qualcosa di più, che purtroppo le indagini delle autorità, le censure di Stato o la lotta politica non possono ottenere. Ma si può resistere al delirio pro-Pal, iniziando con il riconoscere i crimini di Israele, nettamente e chiaramente. A prescindere se sia o meno genocidio, Israele sta compiendo quel suicidio che pochi mesi prima del 7 ottobre Jaques Attali aveva già definito un suicidio. Riconoscere, per esempio, non solo che per mesi Israele non ha tenuto conto dei morti civili, o lo ha tenuto nascosto, ma ha ucciso giornalisti, inibito la stampa libera e da anni lascia campo libero ai coloni in Cisgiordania, uno dei quali, per esempio, ha di recente investito di proposito un palestinese in preghiera, aggressione che gli è valsa cinque giorni ai domiciliari (in altri casi invece non si è fatto proprio nulla).
Superato questo limite, questa barriera cognitiva (che chi scrive ha avuto e inevitabilmente alimentato per molti mesi), si tratterà solamente di “camminare e masticare la gomma insieme”, e cioè imparare a fare due cose allo stesso tempo: come condannare Israele e condannare Hamas. Questo dovrebbe permetterci di prendere un po’ di distanza dal tifo, dagli slogan, dalle false generalizzazioni (“tutti i palestinesi sono come Hamas” o “Israele è uno Stato criminale dalla sua fondazione”), smettendola di credere alla falsa dicotomia o pro-Pal o bibisti (come ha detto sempre Attali, ricordando che non ha senso confondere il sionismo con l’estremismo cinico e manageriale di Netanyahu). A questo punto resta solo da ricordare quale cultura valga la pena di sostenere, di difendere, di proteggere, dai nemici dentro e fuori casa. E capire che i soldi sono solo un modo volgare di mettere il cappello a una vittoria che non passa dai finanziamenti, ma dalla corruzione spirituale, che è sempre anche una corruzione civile.