Io so che i miei romanzi, che le mie poesie, che i miei film sono diventati monumenti spesso più per il simbolo che per il contenuto. Io so che la parola “denuncia” mi ha portato in alto, ma non ho le prove che io stesso abbia capito fino in fondo il potere che dicevo di combattere.
Io so che mi sono proclamato contro – contro la televisione, contro la società dei consumi, contro la violenza dello Stato – ma non ho le prove che la mia ribellione fosse davvero libera e non una forma di contemplazione del mio stesso protagonismo.
Io so che molti leggono ancora Ragazzi di vita come un grido dal basso, e Accattone come il cinema dell’oppresso. Ma non ho le prove che queste opere abbiano agito davvero contro il potere invece di entrarci in simbiosi. Io so che la mia scrittura gridava “vergogna” ai potenti, e i miei occhi registravano l’orrore delle borgate, della marginalità, della miseria morale — ma non ho le prove che quella stessa miseria non l’abbia fatta diventare un mito da salotto intellettuale.
Io so che Salò o le 120 giornate di Sodoma doveva scuotere le coscienze, amputare l’indifferenza. Ma non ho le prove che non sia diventato uno spettacolo d’orrore, un circo estetico, una celebrazione del protrarsi dell’abiezione invece che la sua distruzione.
 
    
            Io so che sul potere ho scritto: “Il potere non vuole che si parli chiaro”. (Scritti corsari) Ma non ho le prove che io stesso abbia sempre parlato chiaro, evitando le trappole dell’autocompiacimento, della visibilità, della posa.
Io so che la “politica dei ‘desideri’” (Lettere luterane) era la chiave per decifrare l’ipocrisia del progresso, e che l’intellettuale doveva essere spina nel fianco del sistema. Ma non ho le prove che non diventassi, a mia volta, elemento dell’apparato simbolico del potere, valido nel suo cerimoniale di condanna, utile al potere nel suo osservarsi come “critico” mentre rimane eguale.
Io so che l’arte è la forma più alta di verità, che la parola poetica è resistenza. Ma non ho le prove che la mia estetica non abbia tradito la vita reale, che il mio linguaggio colto non abbia finito per diventare un recinto elitario, che le mie forme non abbiano escluso chi volevano invece includere.
Io so che vorrei che qualcuno osasse dire: “Pasolini non è infallibile, non è intoccabile”. Ma non ho le prove che quell’intoccabilità non sia stata, alla fine, mio alleato silenzioso.
 
    
            Io so questo, però non ho le prove—e forse non ho neanche l’indizio. Perché il coraggio intellettuale, in Italia, si misura all’ombra del potere, ma troppo spesso si trasforma in rito, in formula, in monumento. E io so che sono anch’io parte di quel rito. 
Infine, io lo so, che qualcuno di voi queste cose vorrebbe anche dirle e che non può farlo, pena l’esclusione da quegli ambienti in cui sono idolatrato. Ma non ne ho le prove. E mentre navigate via con le vele spiegate di una narrazione sempre più scollegata dal reale, non ho neanche le prove che discutere di me abbia ancora un qualche valore.
 
             
     
                     
                     
                     
                     
                    