Caro Andrea Sempio,hai parlato, nell’intervista con Bruno Vespa andata in onda il 19 novembre, di un’esistenza che non esiste più. Non quella di Chiara Poggi, morta ammazzata a 26 anni, ma la tua: “non ho più una vita… è come essere ai domiciliari”. Parole che, al netto di tutto e empatizzando un po’, sono oggettivamente di dolore e che chiunque in stato d’accusa può capire. Solo che la verità, quella che libera o inchioda, non si conquista proclamandosi perseguitati a reti unificate, ma con la chiarezza totale. E, lasciatelo dire, neanche ieri da Vespa s’è vista. Se sei certo della tua innocenza, nulla dovrebbe restare nascosto delle tue frequentazioni, dei tuoi movimenti, dei contatti che hai avuto con la famiglia Poggi, di quei biglietti trovati in casa e di uno scontrino che oggi rischia di rìvelarsi un boomerang.
Non sei, comunque, l’unico a conoscere questa misura di sofferenza. Alberto Stasi, condannato in via definitiva per l’omicidio di Chiara Poggi, ha vissuto per anni l’attenzione mediatica e giudiziaria. E’ in prigione da dieci anni e, tra tutto, sta pure per uscire. A differenza di molti, però, Stasi ha sempre dichiarato di volere “giustizia per Chiara”, non ha alimentato alcuna pubblica caccia alle streghe contro presunti colpevoli e, soprattutto, se ne è ben guardato dal rispondere, ogni volta, alla domanda su chi sia a suo avviso il colpevole. Questo atteggiamento non lo assolve, sia inteso, da possibili omissioni e meno che mai basta a rivedere una sentenza di condanna definitiva, ma – sempre empatizzando - segna una differenza che ieri, dopo quei pochi minuti con Bruno Vespa, è diventata pesantemente evidente: non rivolgere l’indagine contro altri è, almeno nelle apparenze, scelta di rispetto verso la verità e verso il dolore. Soprattutto mentre si sta provando lo stesso dolore.
I fatti di Garlasco, inutile negarlo, rimangono intrisi di zone d’ombra che accomunano due ragazzi, uno condannato e l’altro indagato, che non sanno più come dire di essere innocenti. Sottolineo solo i punti documentati e contestati nelle indagini: una traccia di DNA sotto le unghie della vittima descritta come parziale e mista; l’impronta palmare “33” sulla scala, attribuita in fasi diverse ora a un profilo, ora a un altro; sei impronte sulle pareti della scala rimaste ignote; discrepanze tra lo scontrino del parcheggio a Vigevano conservato dalla madre e gli agganci telefonici risultanti; telefonate a casa Poggi nei giorni precedenti; e, a corollario, indagini su presunti pagamenti e su procedure di archiviazione contestate. Sono tutti elementi che sollevano interrogativi, non sentenze. Essere perseguitati è altro. Pretendere che non ci si voglia vedere chiaro è supponenza. Anche perché o si accetta che gli indizi non possono bastare per una condanna – e quindi si ammette che Alberto Stasi potrebbe non essere l’assassino di Chiara Poggi – oppure, come è sembrato ieri in quella intervista, si ricorre alla olita doppia misura che determina squilibrio in ogni giudizio: quando ci sto di mezzo e quando non ci sto di mezzo.
Alberto Stasi è stato condannato senza prove certe. Tu, ora, sei indagato senza prove certe. Il punto, però, è che l’assenza di prove non equivale a prova di assenza sulla scena del crimine. Ma, condannato o sospettato, chi ha qualcosa da perdere più grande della propria reputazione — una vita, forse la verità su quella mattina — dovrebbe essere il primo a spogliarsi dei segreti. La totale trasparenza è l’unico strumento efficace per allontanare la persecuzione percepita. Se non è stata detta tutta la verità, il motivo non può essere solo la paura di essere creduto: potrebbe essere la volontà, consapevole o involontaria, di proteggere qualcun altro. Il sospetto dell’“innominato” o di “innominati innominabili” c’è e ricorre sia ascoltando e guardando le tue interviste, sia ascoltando e guardando quella realizzata non troppo tempo fa dalle Iene a Alberto Stasi. E’ una percezione latente, ma comunque pesante: sembra che entrambi custodiate un non detto.
Non imputo, anzi faccio come Lovati e parlo di un sogno, visto che le responsabilità giudiziarie spettano ai tribunali, ma sogno che tu, Stasi e chiunque tenga alla verità su Chiara possiate considerare la forza liberatoria della chiarezza, compreso chi si è lasciato scappare un “prima o poi parlerò, ma mi devono pagare tanti milioni”. Se esisto innominabili innominati, se esistono protezioni sistemiche che riguardano una provincia intera e forse non solo, è necessario capire che questi e solo questi sono i tempi maturi prima che il clamore si spenga di nuovo. Se tu, Stasi o qualcun altro che fino a ora non è finito nel tritacarne avete frammenti di verità non detti, rivelarli non è tradire qualcuno. Anche fosse in nome di una grande paura per se stessi. Se invece c’è nulla da nascondere, l’unica strada per spegnere la persecuzione è lasciarsi “perseguitare”.