Marina Berlusconi ha ragione: in un’epoca controllata dalla Big Tech, in cui l’algoritmo detta il ritmo del pensiero, i libri restano l’ultima forma di lentezza resistente, gli anticorpi contro l’omologazione digitale. Lo ha scritto in una lettera al “Corriere della Sera”, annunciando che, a un anno dalla nascita della casa editrice “Silvio Berlusconi Editore”, saranno pubblicati tre libri che affrontano “un tema decisivo: i rischi e i benefici della rivoluzione tecnologica e il suo rapporto col potere”. Ma Marina Berlusconi, oltre a essere Presidente di Fininvest lo è anche di Mondadori. Per questo sembra giusto chiederLe: ma la Mondadori è lenta?
Ovviamente scrivo da autore. I miei libri, ad esempio, sono lenti, anche se dentro, pare, siano veloci. Conducono, per così dire, una esistenza riflessiva e bucolica, eretica, ascetica, forse fuori dal mondo e dalle regole editoriali (che mi pare essere il tema, al fondo). Il mio primo romanzo, Chi è Lou Sciortino?, edito nel 2004 da Neri Pozza e poi transitato proprio in Mondadori, negli Oscar, verrà ripubblicato l’anno prossimo da Giulio Perrone Editore insieme al mio nuovo romanzo, Pastorale Siciliana. Questo mio primo romanzo continua a essere tradotto all’estero (mi sembra che l’ultima traduzione sia di un paio d’anni fa, in Egitto, per la Al Arabi). Sicilian Tragedi, pubblicato proprio da Mondadori nel 2006, è stato tradotto quest’anno, a diciannove anni dalla sua prima edizione, in catalano. Viaggiano con calma: li immagino in treno, a leggere gli uomini; non seguono la logica dei post, durano nel tempo e frequentano luoghi dove il segnale 5G fatica ad arrivare. Sicilian Comedi fu edito in America dalla Farrar, Straus & Giroux del mitico Jonathan Galassi e David Leavitt gli dedicò due lusinghiere paginate (bontà loro) sul New York Times. Eppure, Mondadori non è mai riuscita a portarlo in classifica, né la Sua casa editrice è stata mai punta dalla vaghezza di farlo partecipare a un qualche premio. Proprio perché sfuggivano a quella “velocità” che Lei rimprovera, giustamente, alla contemporaneità. Evidentemente la Mondadori non la pensa come Lei. È giusto così, ed è mia convinzione che Lei abbia sempre interpretato il suo ruolo di editore nella massima libertà concessa ai suoi dirigenti, editor, consulenti e quant’altro.
Sia chiaro: non mi lamento (anche se non sono mai stato pauperista, anzi); ognuno scrive il proprio destino editoriale. Ma abbiamo fatto il militare a Cuneo e sappiamo che le grandi case editrici sono soggette a una legge implacabile: l’aumento di fatturato.
Non sto qui a spiegare a Lei (ci mancherebbe) i metodi attraverso i quali i libri girano vorticosamente sugli scaffali delle librerie o come funziona il diritto di resa, per cui anche l’invenduto finisce tra le “entrate” grazie allo scambio “reso-nuovo” che aumenta la “velocità” dei libri secondo le regole economiche della velocità della moneta: negli assegni sono state abolite le “girate”, nei libri no. Si stampano libri come una volta si moltiplicava la moneta circolante con le girate degli assegni e questa si chiama inflazione.

Veniamo al punto. Le Big Tech, come giustamente fa notare, inghiottono pubblicità, dati, attenzione. Le Big Publisher si comportano diversamente?
Certo, possono permettersi di pubblicare i migliori, ma non sempre li mettono in condizione di arrivare in cima alle vendite. Anche le grandi case editrici sono alla mercé delle views e dei like, della “velocità”.
Le faccio un esempio concreto: in questo momento, al primo posto delle classifiche dovrebbe esserci un immenso classico contemporaneo, Vineland di Thomas Pynchon, grazie al traino del film (in Italia campione d’incassi) "Una battaglia dietro l’altra" di Paul Thomas Anderson (il libro, al momento, è in catalogo Einaudi). Perché libri come "Cinquanta sfumature di grigio" non fanno fatica a scalare le classifiche una prima volta quando escono e una seconda volta quando esce il film, mentre Pynchon no? (Vineland è complesso, ma forse il più godibile, spettacolare, colorato, divertente, esplosivo romanzo dell’autore in questione).
Ho la risposta, ovviamente; a Cuneo parlavamo spesso del mercato editoriale. Un editore oggi, mi corregga se sbaglio, deve stare nel mercato, deve stare sui social e non vorrei allungare troppo il brodo mettendomi a discettare di Booktok e di Bookstagram (temi caldi, Signora mia, alla Buchmesse). Una grande casa editrice deve stare nel flusso, nel vortice, nel frullatore, deve essere anfetaminica, multitasking, in perenne burn out, nuotando come gli squali senza potersi mai fermare. Deve stare nell’algoritmo. I nuovi bestseller, i fantasy romance, vengono da lì, dalle piattaforme delle Big Tech, dai reel entro i sessanta secondi, dallo scrolling. Non mi sembra che i grandi editori ne siano inorriditi. Lei forse sì, ma non i suoi editor, che devono scegliere cosa pubblicare sapendo che il fine quello è: l’aumento di fatturato, pena — giusta, dato che oggi gli editor sono manager — il licenziamento, la sostituzione. O con termini più gentili: l’avvicendamento.
A capo delle grandi case editrici i “vecchi” siano stati sostituiti dai “nuovi”: competitivi, spietati, spesso provenienti dal mondo della correzione bozze e pronti a tutto pur di restare sulla sedia che hanno sempre sognato. Non che i “vecchi” non avessero le loro colpe. Come ho già detto: ognuno è causa del proprio destino editoriale. La vita è spietata, non vedo perché non debba esserlo l’editoria.
Ma si può pretendere (o forse sì?) da questi Frankenstein editoriali — un po’ di cultura, un po’ di fatturato, un po’ di social, un po’ di algoritmo, un po’ di paura — che stiano minimamente attenti alla “lentezza” di cui Lei, in maniera competente, parla?

Gentile Marina: i libri lenti, difficili, complessi non vendono “immediatamente”, ossia fuori dai “media”, campo nel quale Lei non ha da prendere lezioni da nessuno e come ben sa, oggi, media e algoritmo coincidono; per questo i libri “di valore” (diciamo così, di “deflazione”) vengono scartati alla velocità di un calcolo computazionale quantistico.
Ma sono proprio i libri “veloci”, facili, flat, scritti con un linguaggio piano, senza stile, che alimentano l’algoritmo dal quale vengono alimentati: in altre parole, è un cane che si morde l’algoritmo.
E concludiamo. I libri hanno una responsabilità nei confronti del mondo. Lei centra il problema. Ma il sistema editoriale, almeno quello dei Big Publisher, la responsabilità ce l’ha verso gli azionisti, non verso il mondo. O mi sbaglio?
Così, l’editoria cosiddetta mainstream, pur dichiarandosi custode della cultura, si comporta con la stessa logica di chi vuole produrre contenuti virali: cambia la confezione — non stories, reel, card — ma libri che cercano reach, engagement, posizionamento.
La Sua lettera al Corriere, mi permetta, ha una contraddizione di fondo: vuole parlare al mondo degli "Scrittori" (la “s” maiuscola è un codice) ma da una casa editrice “di nicchia”. Raffinata, molto raffinata. Ma il “mondo”, Signora, non è raffinato, e gli “Scrittori” sono degli stupendi criminali che girano selvaggi per la realtà camuffandosi da barboni. Siamo “già”, “hic et nunc”, di nicchia.
Le grandi case editrici — ma è un’osservazione, non una critica — la temono, la lentezza, è il loro Leviatano. Glielo dico con due parole che Le renderanno subito il concetto: le Big Publisher, come le Big Tech, temono la decrescita felice. Perché sarebbe un momento di felicità se i grandi editori davvero la riscoprissero, questa misteriosa lentezza.
È un concetto forte e importante, quello da Lei espresso e scritto: la forza lenta dei libri. D’altronde noi ci confrontiamo con la Fine dei Tempi, con l’Apocalisse, con la Seconda Legge della Termodinamica, con La Morte del Sole. La forza lenta dei libri è una responsabilità verso il mondo (una responsabilità “estetica”, non certo “morale”: gli “Scrittori”, della morale non hanno cosa farsene) non verso il fatturato a breve termine. Richiede coraggio, investimenti, scommesse sul tempo lungo, ma non si ragiona più “lungo”: i sillogismi si accorciano, i ragionamenti diventano slogan, i dibattiti diventano tweet. Mi piacerebbe si procurasse un libretto del mio Maestro, Manlio Sgalambro, "Del pensare breve", edito da Adelphi, in cui si inchioda con precisione chirurgica questa epoca alla sua brevità e alla sua velocità. Non ho da insegnarLe nulla sull’editoria. Ma sulla velocità e la lentezza sono un asso.
La Sua è una posizione di responsabilità. E Lei ne è, sorprendentemente e piacevolmente, consapevole. Sta a Lei.
Con stima,
Ottavio Cappellani di Pirainito