Dai un’occhiata alla sua pagina Instagram e tutto è chiaro. Basta uno sguardo, non serve un esperto di moda, un sociologo, uno storico del costume per spiegare quale siano le influenze che muovono Teddy Santis e il suo marchio, Aimé Leon Dore, nella definizione dei suoi prodotti. Per chi è nato negli anni ’80, proprio come chi vi scrive e come Teddy, quella cosa lì è lampante: c’è dentro tutta un’infanzia, un intero immaginario. Ci sono i Chicago Bulls di The Last Dance, c’è Ralph Lauren delle felpe tanto amate da noi italiani. C’è il ricordo comune, assorbito per osmosi in anni di preserali estivi a base di archivio RAI, di una Capri anni ’50 che così bella non tornerà più. C’è la New Balance dei Blues Brothers, ci sono Macaulay Culkin e la New York di Una poltrona per due. Dentro Aimé Leon Dore c’è tutto questo e tutto questo, così sapientemente mescolato (non agitato), ve lo diciamo subito, è una delle cose più adesso - come direbbe Toni Thorimbert - che possiate trovare là fuori.
E non è di certo un caso se qualcuno si è azzardato addirittura a sostenere che proprio ALD sia il primo brand ad aver creato un’estetica autenticamente post-streetwear. Come ha detto Jon Caramanica, del New York Times, nei capi di ALD è possibile intravvedere l’ombra di quel periodo in cui i grandi marchi dell’abbigliamento maschile - come Polo, Tommy Hilfiger, Timberland, L.L. Bean - sono stati obbligati a fare i conti con lo stile e la cultura hip-hop, mentre quest’ultimo faceva i conti, già da tempo, con il mainstream, cercando di fare proprie le sue icone.
Una contaminazione che non è poi così nuova per lo streetwear in generale - da anni abituato a far convivere Pendleton e The North Face, Birkenstock e brand di lusso - ma che per la prima volta, forse, viene effettivamente proposta come espressione di un'unica visione, inscatolata e proposta con un indirizzo preciso.
Di certo, di questa voglia di contaminazione si sono accorti numerose aziende, come Woolrich, Timberland, New Balance, New Era, Paraboot e di recente persino Porsche, che per la prima volta nella sua storia, proprio con Aimé Leon Dore, ha deciso di mettere la firma su un restomod, realizzato su base 911 Carrera 4 del 1990 (type 964).
Porsche 911 Carrera 4 by Aimé Leon Dore
Se è dalla lettura del sommario che vi state domandando che cosa significhi “restomod”, sappiate che probabilmente non avete mai letto le riviste giuste (state rimediando in questo momento) o non avete duecentomila euro mal contati da destinare all’acquisto di un’auto che varrà circa la metà non appena avrete girato la chiave per accenderla. Restomod deriva dalla crasi di “restoration” e “modification”, l’inglese per restauro e modifica. Se, infatti, i dettami del bravo collezionista vogliono che ogni vettura sia quanto più possibile identica all’originale, gli amanti dei restomod uniscono, al piacere di rimettere a nuovo un’auto, il gusto per la personalizzazione, concentrando in una sola macchina, elementi, accessori, soluzioni del presente, con una base del passato.
Piccolo particolare: esattamente come per le café racer, questo tipo di customizzazioni tendono a costare un occhio della testa, per ore uomo e componenti scelte, ma sono apprezzate unicamente dal proprietario, rendendo le auto a cui sono destinate degli oggetti quasi invendibili.
Difficile dire, quindi, quanto valga, oggi, la Porsche 911 Carrera 4 del 1990 (una 964), dopo che ad averci messo le mani sopra è stato Teddy Santis in persona.
A cambiare sostanzialmente le cose, rispetto a tutti gli altri restomod su base Porsche fino ad ora visti in giro è che, in questo caso, il progetto firmato Aimé Leon Dore ha ricevuto, per la prima volta nella storia, il patrocinio diretto di Porsche. La 964 by ALD è, in altre parole, la prima e fino ad ora unica Porsche restaurata “ufficialmente” dalla casa tedesca, rendendo questo oggetto potenzialmente interessante anche per il mercato del collezionismo.
Presentata in occasione delle sfilate newyorkesi di febbraio 2020, si caratterizza per un totale rifacimento degli interni e per alcune modifiche all’esterno. Dentro troviamo un ampio ricorso alla pelle: pieno fiore per cruscotto, volante e pannelli portiere, a cui si uniscono dettagli, come il cielo dell’abitacolo, in pelle scamosciata. I sedili sono ora marchiati Recaro e presentano inserti in pied de poule Loro Piana. Ancora in pelle il rivestimento impiegato per il porta bagagli anteriore che fa match con una borsa realizzata nello stesso materiale dei sedili.
All’esterno della vettura, troviamo, innanzitutto, una tonalità bianco panna del tutto analoga a quella impiegata da Teddy Santis per il suo flagship store di Mulberry Street a SoHo (Manhattan). L’alettone posteriore fa storcere il naso ai puristi: secondo ALD e Porsche si tratta di un omaggio, alla 911 RS 2.7 (type 911 quindi) degli anni ‘70. Chiamato in gergo “ducktail” (coda d’anatra) sembra la classica figata messa lì un po’ a caso, de botto, come direbbero gli autori di Boris, ma verosimilmente, nel giro di qualche anno, ci sembrerà soltanto una tamarrata. Si accompagna a un set di cerchi Cup II, più propri delle Carrera degli anni ’90, e al fregio a forma di Pegaso, sui passaruota anteriori. Disegnato specificamente per questo progetto, è ispirato ai loghi della Mobil Oil che comparivano come sponsor sulle 356 da corsa degli anni ’60. L’unico dettaglio degli esterni a svelare la collaborazione con ALD è un badge posto sulla griglia posteriore, che fa tanto understatement. Anche questa è una novità, nel mondo dello street style.