Le uniche due cose interessanti che ho imparato da “Money Shot: la storia di Pornhub” (appena uscito su Netflix e subito in Top Ten) è l’esistenza del “Dick Rating”, ossia quella pratica sessuale con la quale qualcuno manda una foto del proprio pene a una sex worker e lei gli fa la recensione, tipo: “Belle vene” o – giuro – “sembra molto idratato” (non pensavo fosse una cosa woke e permessa, ma dato che lo è posso dirvi che l’unico paio di tette che si vedono nel documentario sono quelle di Gwen Adora, categoria BBW – Big Beautiful Women – e avrei preferito non vederle anche se sembravano idratate). La seconda novità interessante è l’esistenza di video hard sul sesso consensuale la cui sceneggiatura è strepitosa: due lui e una lei. E lei che dice: “Gli schiaffi mi piacciono, sul sedere belli forti, ma se me li date in faccia andateci più piano. Ovviamente se vi piace. E a voi cosa piace?”; Mentre lui 1: “I bacini sensuali”; Oppure lui 2: “Il solletichino sul collo. Ma niente strangolamento”; Lei: “A me invece piace strangolare, mi ero dimenticato di dirlo. Ma se a voi non piace non lo farò”. Tutti felici.
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Per il resto, “Money Shot: la storia di Pornhub”, fa passare la voglia di masturbarsi persino agli uomini terrorizzati da questa faccenda prostatica per cui bisognerebbe eiaculare almeno 21 volte al mese e che mi sembra una forma di sfruttamento sessuale verso se stessi. In realtà il documentario ha poco a vedere con la storia di Pornhub o del sesso online ma parla dell’ormai famoso articolo di Nicholas Kristof sul New York Times (intitolato “I bambini di Pornhub”) e delle accuse al sito di monetizzare su video (caricati anonimamente) in cui erano presenti pedopornografia, stupri, sfruttamento sessuale, doxing e tutto l’universo legato ai reati inerenti al sesso. A controcanto, la difesa del sito non solo da parte dei sex worker ma persino di “ambassador” di Pornhub (e sto cercando di immaginarmi cosa scrivono sulle targhe diplomatiche, dato che Pornhub è anche famoso per la pubblicità megalitica a Times Square che recitava “Ti basta una mano”). Ma comunque.
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Da un lato una attivista che lancia la campagna “traffickinghub” che accusa il sito di non effettuare alcun controllo sui materiali “caricati” e quindi di favorire il traffico di esseri umani (attivista dietro cui sta un’associazione cristiana estremista che in realtà vuole abolire tutto il mondo della pornografia - e svuotare l’oceano con un cucchiaio, probabilmente) che prende di mira il pesce più grosso dell’acquario per farsi pubblicità (malizioso che sono), e dall’altra parte il pesce più grosso dell’acquario che poi è proprio uno squalo e che per anni ha davvero fatto soldi su contenuti che era possibile mettere online anonimamente e senza controllo. Alle accuse andrebbe aggiunto anche lo sfruttamento dei “moderatori”: ne intervistano uno, pixelato e con la voce stravolta; “Dovevamo guardare tra i 700 e gli 800 video porno al giorno, ovviamente non potevamo vederli tutti”, ne guardavano solo poche centinaia e ad avanzamento veloce. Il documentario non ha un punto di vista, si limita soltanto a presentare dei fatti che si scontrano tra loro: l’effettiva presenza di materiale penalmente condannabile sul sito e la difesa di chi lavora nel mondo del sesso e che in Pornhub ha trovato la maniera di bypassare le case di produzioni, un po’ come quelli che si autopubblicano i libri su Amazon (per uno che ce la fa…). La società proprietaria di Pornhub, Mindgeek, per anni non ha fatto nulla per rimuovere i contenuti dubbi fino a quando Mastercard e Visa non hanno preso la decisione di non accettare più transazioni inerenti al sito. A quel punto sono sorti i problemi morali ed etici con conseguente cancellazione di dieci milioni di video “non verificati”. Praticamente, niente di nuovo. Infine qualcuno ammette: il problema non è Internet. Ma va?