Quanto è dura unirsi al coro di elogi per una serie tv appena uscita. Ogni volta che chi scrive avvista sui social titoli trionfanti e aggettivi roboanti rispetto a una nuova produzione (che sia televisiva o cinematografica) sente un brivido lungo la colonna vertebrale e da lì in poi vive all’addiaccio finché non si produce nella versione dell’iconica perla audiovisiva tanto osannata. Con ben poca sorpresa, nove volte e tre quarti su dieci si tratta di una fetecchia putrida quando non appena banale, con dialoghi da ferire incudine, martelletto e staffa (i tre Avangers che si stagliano quotidianamente a protezione dei nostri timpani) e con una regia da far rabbrividire quella di Bim Bum Bam. Quindi vedere una serie italiana annunciata come mezzo (o completo) capolavoro e non ritrovarsi a piangere nel proprio angolino a fine visione, è un’esperienza che non ci saremmo mai aspettati di vivere. Il miracolo l’ha fatto Sky, mandando in onda A casa tutti bene per la regia di Gabriele Muccino. Tranquilli, non abbiamo perso il senso del gusto. Tampone fatto, risultiamo negativi. Dunque, cosa rende la nuova fatica di Muccino Senior di livello nettamente superiore rispetto alla media delle serie-canile nostrane? Parecchi aspetti. E non è solo lo spirito del Natale a farci essere più cuor di zucchero. Noi del Natale apprezziamo solo le famiglie disfunzionali che si ritrovano, passivo-aggressivamente ostili, alla stessa tavola il giorno del 25 dicembre. E ora, su Sky, ci sono canditi per i nostri denti bramosi di panettone alla stricnina.
A casa tutti bene è la prima serie di Gabriele Muccino, tratta dal suo omonimo film “campione di incassi” ma più scadente di quanto non sia la realtà per Sorrentino fin dal poster promozionale (realizzato, con ogni probabilità, grazie al sapiente uso di Word Art ‘98 e di un’accetta per scontornare le immagini degli attori). Solo i comunicati Sky suonavano ottimisti, anzi convinti dell’eccellente riuscita di questo progetto, almeno fino al giorno della messa in onda dei primi due episodi, lunedì 20 dicembre, quando i telespettatori si sono ritrovati avviluppati alle nevrosi della famiglia Ristuccia, tra figli, nipoti, nuore, cognati, corna, amorazzi, invidie, caste, furti, debiti, intrighi tutti riuniti insieme al ristorante San Pietro, messo in piedi dal capostipite partito come cameriere e divenuto magnate di tutto il cucuzzaro. Potrebbe essere la trama di Centovetrine? Assolutamente sì. Perché invece non risulta esserlo? A casa tutti bene evita il rischio di ritrovarsi a essere la versione 2021 della Occhi del cuore di Borisiana memoria per almeno un paio di motivi: la regia di Gabriele Muccino (che è anche ideatore e co-sceneggiatore del progetto) e la recitazione del cast che, non ce ne vogliano i più prestigiosi canili mediatici nostrani, finalmente è degna di questo nome. Al netto di qualche personaggio che si mangia le sillabe di ogni parola e di chi si ostina a fare della dizione una lontana zia muta in via dei Matti al Numero Zero, abbiamo a garanzia di talento una splendida Laura Morante, nei panni di Alba, matriarca dei Ristuccia che fa spiccare il proprio personaggio con un’eleganza quasi pari alla dolcezza che irradia sul branco di stronzi che è la sua progenie. E poi c’è Emma Marrone…
L’ex amica di Maria De Filippi, nonché fino a un paio di settimane giudice di X Factor e ai primi di febbraio in gara sul palco del Festival di Sanremo, nei ritagli di tempo dà tutta l’impressione di voler fare l’americana, nello specifico Lady Gaga, e c’è da dire che in questa nuova veste da attrice non dispiace per niente. In a casa tutti bene, la Marrone è Luana, compagna visibilmente incinta del disagiato Riccardo (uomo dalla trascinante simpatia, ma col vizio del gioco): trucida sin dai capelli, allure burina e modi da camionista ucraino alla sesta pinta di birra, ma nel contempo innamoratissima del suo (disastroso) partner che supporta e incoraggia non importa la sciagura in cui s’è riuscito a ficcare, convince. E, notizia delle notizie, si risparmia dal cantare nelle scene corali in cui la tipica famiglia disfunzionale si lancia in un’orgia di karaoke duro tra consanguinei con la complicità di un malcapitato pianoforte. Convince, come convincono queste scene, oramai veri e propri topos mucciniani come la mania dei girogirotondo (“giro” andava scritto almeno due volte perché sembrano durare pressoché all’infinito) intorno alle persone che si abbracciano.
La selezione musicale, poi, è sopraffina, soprattutto se si considera la matrice nazionalpopolare del progetto. Al posto delle solite cover in slo-mo di pezzi famosissimi o dell’avanguardistica dance-trap-random per dare un tono ggggiovane alla faccenda, Muccino punta, per esempio, sulla sobrietà di un ineccepibile Tenco (con Vedrai Vedrai) assestato a dovere. Solo la sigla iniziale, con la voce di Lorenzo Jovanotti, per quanto coerente con la poetica del regista, ci è parsa un filo sottotono: si apre con un vinile che sanguina mentre scorrono le prime note del brano (che ha lo stesso titolo della serie). Non si può non empatizzare con quello sciagurato vinile nella sua silente ma strenua protesta contro il criminale (anche se oramai caduto in prescrizione) sigmatismo del guru dell’amore (e della vita e di tutto il resto) Cherubini.
Gli intrighi della famiglia Ricciardi vi avviluperanno grazie ai loro buoni (davvero così buoni?) e ai loro cattivi (sì, davvero così cattivi). Con storiacce del passato per i primi due episodi accennate solo da veloci flashback che nulla di sereno lasciano presumere e nuovi amori che nascono, avvincenti e pieni di tenerezza tra due ex fidanzati che si ritrovano e tornano adolescenti con la paura e la voglia di essere soli. Ma pure di darsi un bacetto a stampo, va là. Di sfondo, già nella prima puntata assistiamo a un gigantesco lutto.
Niente spoiler ma solo un piccolo accenno per farvi calare meglio nel mood di questa produzione Sky; in una scena padre-figlio, il bimbo chiede al papà scrittore perché abbia scelto proprio questa professione. Lui dà una risposta un po’ complicata (più che altro vaga, per tagliare corto) e il piccolo prosegue a investigare: “Fare lo scrittore è un po’ come fare il regista?”. “No, fare il regista è riuscire a far interpretare agli attori le emozioni dei personaggi per come tu le sentiresti”. Da questo piccolo scambio, volendo prenderlo per autobiografico, possiamo desumere che Muccino Senior passi la maggior parte delle sue giornate a essere incarognito quanto un diavolo della Tazmania. E questo ci piace, ci piace moltissimo perché dà il via libera a uomini piccolissimi che per celare la propria miseria umana fanno la voce grossa, i “qui comando io” della situazione, i grandi imprenditori che però nulla sarebbero senza i soldini del papy. E soprattutto agli psicodrammi, altro dogma mucciniano, con le persone che si urlano sulla faccia, roba che quasi gli si possono vedere gli sputi, con buona pace del Covid-19, in direzione del grugno dell’avversario con la stessa definizione con cui si potevano ravvisare quelli di Dan Black, voce dei Planet Funk, nel videoclip di Who said. Tutto questo, ai margini di un’elegantissima e formale cena di famiglia.
Amorazzi, piccoli problemi di cuore, furti, debiti, buoni sentimenti, falliti, corna e ex invadenti. In A casa tutti bene c’è tutto quello che vi serve per affrontare i parenti al cenone della vigilia e/o al pranzo di Natale. Di sicuro, questa serie è una coccola per la salute mentale di ognuno di noi: la famiglia Ristuccia è disfunzionale a modo suo, proprio come le nostre. Non c’è niente di male nella tossicità famigliare, si tratta di un'esperienza più che comune, collettiva. Quindi c’è solo da conviverci come cercano di fare, pressoché ogni giorno, tutti gli abitanti del nostro globo terracqueo. E, magari, c'è pure da tirarne fuori storie che lo spettatore medio non si sentirà in dovere civile di seguire di nascosto, lasciando magari un porno senza audio in sovrimpressione per non farsi sgamare a divorare “la solita serie-canile italiana”.
A casa tutti bene è una serie ben scritta e ben girata, tanto che risulta difficile non entrare in empatia con ognuno dei personaggi (son tanti, eh? Un dedalo di albero genealogico da ripercorrere per capire chi sia figlio/nipote/cugino di chi. All’inizio, si suda proprio) per le loro debolezze, ombre e punti di forza. Meglio bastardi senza gloria che bastardi senza eredità sembra essere l’inno di ogni invitato alla cena di compleanno del patriarca. Un po’ Succession denoartri (ma con il core italiano, sì quello di cui parlava Gerard Depardieu nel celebre spot tv, al posto del cinismo tout court) questa serie ha infine il gigantesco e insperato merito di un’assenza importante: non c’è traccia, nemmeno all’orizzonte, di Stefano Accorsi. Neanche di un’idea di Stefano Accorsi. Grazie, Gabriele Muccino. Finalmente.