Uno dei principali problemi della letteratura italiana, almeno dagli anni Novanta in poi, è il suo tentativo costante di fare il verso a quella americana. Dall'autore affermato all’esordiente, passando per l’eterno “wannabe” (per parlare come loro) con il manoscritto riposto nel cassetto, sono innumerevoli gli scrittori di casa nostra che hanno composto un romanzo con la scimmia di JT Leroy sulla spalla (o Dfw o Philip Roth o Bret Easton Ellis).
Nel caso di Animali notturni di Carlotta Vagnoli, però, si assiste a un ulteriore scatto in avanti: la scimmia ha dato una pedata alla scrittrice e si è impossessata della tastiera. Elencare i motivi per cui questi tentativi non siano solo destinati a produrre risultati tra il patetico e il ridicolo, ma risultino persino nocivi per l’intera industria culturale italiana, sarebbe un ottimo tema per un saggio di quattrocento pagine, tuttavia, va detto, sforerebbe il perimetro di questo articolo. Dunque ci limiteremo a segnalare come l'infallibile cartina di tornasole per rivelare questa genuflessione culturale sia l’utilizzo dell’aggettivo “fottuto”, diretta traduzione dell’inglese “fucking”.
In Animali notturni l’autrice resiste esattamente tre pagine: poi ecco fare capolino la “fottuta mattina di aprile”. Per altro, poco dopo, con la scusa del personaggio che parla inglese, si passa alle espressioni scritte direttamente nella lingua della perfida Albione: e allora vai di “want some?”, “Ok, I’m ready”, “hundredbucks”, inserite nella convinzione che basti questo a dare una patina “cool” al racconto.
Se fossimo negli anni Cinquanta e in Italia andasse in onda “Lascia o raddoppia”, saremmo d’accordo con l’autrice e soprattutto con i suoi editor. Purtroppo siamo nel 2024, abbiamo Netflix e Airbnb, e le espressioni inglesi non fanno colpo su nessuno, nemmeno su quelli che ancora oggi condividono le foto delle loro vacanze su Facebook. Inutile tentare scorciatoie: il miglior modo per rendere un romanzo accattivante, nel 2024 come nel 1800, è lavorare sulla lingua (ne sa qualcosa un certo Alessandro Manzoni) ma qui, al netto dei vari awanagana, ci troviamo davanti alla solita “lingua media” utilizzata dalla stragrande maggioranza dei libri italiani contemporanei. Una lingua fatta di collocazioni e frasi fatte, che forse erano originali quando le utilizzavano i Cannibali appunto negli anni Novanta ma che oggi non si possono letteralmente più sentire.
Il Plastic che è “la Mecca” della Milano notturna, il calendario delle serate “mandato a memoria come un'Ave Maria”, la festa che perderla sarebbe “un’eresia”, il nuovo album che è “una bomba” (almeno Brumotti di Striscia dice “bombazza”): pare di leggere Aldo Cazzullo vestito da Jovanotti quando faceva il rapper, cappellino girato all’indietro e gimme five all right! Per non parlare del solito, abusato ricorso alle similitudini (i buttafuori espressivi “come due guardie svizzere”) altra infallibile spia di pochezza inventiva. E che dire di quando l’autrice descrive l’incontro con la cocaina, che “sa di schifo ma anche di carezza”? Non leggevamo descrizioni del genere da quando Teresa Ciabatti in Sembrava bellezza nel descrivere un coito con un surfista, a proposito della sua pelle diceva: “sa di sale, sa di buono”. Non esattamente Gadda, diciamo. Al di là dell’americanismo di retroguardia della scrittura, il problema fondamentale di Animali notturni resta comunque a monte.
Alla fine del primo capitolo l’io narrante afferma che il suo è un libro “generazionale”, che racconta la storia, anzi, la caduta, “di una generazione intera”. Dietro una simile dichiarazione di intenti (e di modestia) intravediamo, chiaramente, lo zampino della casa editrice: ci pare quasi di sentirli, gli editor cinquantenni con gli occhiali dalla montatura pesante e le camicie bianche con le maniche arrotolate, mentre barrano le caselle dei vari ingredienti secondo loro necessari a creare il famigerato “Caso Letterario Giovanilista”.
Autrice donna? Ce l'ho.
Femminista? Ce l'ho.
Autofiction? Ce l'ho.
Ambientazione urbana? Ce l'ho.
Droga? Ce l'ho.
Numero di pagine? 168, il minimo indispensabile per rilegare un volume.
Pronti!
Peccato che, come recentemente dimostrato dal tragicomico Un’amicizia di Silvia Avallone (Rizzoli), nel complicato mondo delle storie di finzione, due più due non faccia mai quattro. La ricetta del best seller perfetto non esiste, e tantomeno di quello generazionale; i libri (o i film o le serie TV) che negli ultimi decenni sono stati in grado di rappresentare una generazione intera hanno tutti una caratteristica comune: quella di essere stati concepiti senza nessuna ambizione di questo tipo.
Visto che all’Einaudi hanno il complesso di inferiorità verso gli Stati Uniti, sicuramente conosceranno Clerks, un film indipendente del 1994. Racconta la storia in bianco e nero di un paio di nerd che lavorano in un supermercato di una piccola cittadina del New Jersey. Non c’era un solo motivo logico per cui le vite dei ragazzi di Clerks potessero risultare minimamente interessanti: e invece Clerks divenne il film-manifesto della Generazione X a livello mondiale, incassando 28 milioni di dollari a fronte dei duecentomila di budget.
Invece che ridurre all’osso la narrazione di Animali Notturni in base a valutazioni extra-letterarie, il libro, che comunque possiede degli spunti interessanti come l’intera vicenda del personaggio G, avrebbe avuto bisogno di introspezione psicologica. Di parti, simbolicamente, “vuote” da affiancare ai numerosi “pieni”, da riempire con l’approfondimento, la riflessione, la mediazione: visto che il materiale umano c’era, lì stava il romanzo, non certo nella descrizione superficiale di una simil Berlino in salsa meneghina (chi c’era sapeva benissimo come Milano, più che a una grande metropoli, assomigliasse piuttosto a una grande Pavia) o nelle tirate da sbadiglio sulla droga “ormai ovunque” come fosse una puntata di Lucignolo di vent’anni fa.
L’identificazione generazionale è enormemente redditizia da un punto di vista economico, e proprio per questo, incredibilmente difficile da ottenere. Se il modo per riuscirci è sconosciuto, si conosce benissimo il modo per creare una serie impressionante di banalità, tenute insieme da una trama esile quanto un foglio di carta velina. Esattamente quello seguito da Einaudi nel proporre Animali notturni.
P.s: Se qualcuno fosse interessato a conoscere davvero la Milano di quegli anni, il consiglio è recuperare il blog “Il Deboscio”, un cult capace di rappresentare “la generazione” (se l’operazione dovesse risultare complicata, l’autore ha cancellato da tempo tutti i post, si trova ancora in giro Frangetta e altri profili poveri, Mondadori, 2007). A questo proposito, la scansione settimanale delle serate milanesi di cui sopra usata in Animali notturni, quella imparata “come un'Ave Maria”, è presa di peso da un vecchio post del Deboscio di quegli anni. Chi c’era, ricorda.