“Sì, ma che lavoro fai?” Chissà quando è stata l’ultima volta che qualcuno l’ha chiesto a Piero Pelù, viso diabolicamente simpatico del rock italico, sessantadue anni compiuti a febbraio. Sicuramente non recentemente, anche se, vedremo sarebbe anche potuto accadere. Lui, in fondo, è sulla scena da una vita, da quando era uno degli alfieri del rock underground fiorentino, i Diaframma di Federico Fiumani, in realtà come me anconetano a farne da contraltare, Raf Riefoli e i suoi Caffè Caracas pronto a spostarsi su fronti più pop. Prima è stato appunto uno di coloro che ha sdoganato il rock in Italia, prima che arrivasse l’ondata della generazione Tora! Tora!, i vari Afterhours, Subsonica, Marlene Kuntz e affini, una generazione nata anche grazie al successo inaspettato dei C.S.I. di Giovanni Lindo Ferretti e Massimo Zamboni, ex CCCP, ai tempi, band che era andata a inglobare i transfughi proprio della sua band nel momento in cui il mercato si accorgeva di loro, il segmento temporale tra El Diablo e Infinito a racchiudere il tutto. A seguire una carriera solista costellata di successi, certo, con virate che a volte hanno forse spiazzato il suo pubblico iniziale, lì a rimpiangere Desaparecido o 17 Re. Un successo pop, quello del Piero Pelù post-Litfiba, forse dovremmo raccontarlo così. Pop in quanto assolutamente trasversale, quindi fuori dall’alveo degli appassionati di rock, e perché pop erano alcune sue canzoni, decisamente meno dure nei suoni, benché ancora dure e dritte nei testi. Senza star qui però a sintetizzare oltre quarant’anni di carriera, sarà stato lui poi a cantare Jeeg Robot, si chiederà qualcuno, è dell’oggi che voglio parlare, e dell’oggi che si concentra nelle tracce del suo nuovo album, Deserti, seconda parte della trilogia del disagio iniziata proprio poco prima del Covid, nel 2020, Pugili fragili il titolo di quel lavoro. Piero è tornato, e lo ha fatto mettendosi a nudo, lui che spesso si presenta sul palco con indosso solo i suoi pantaloni di pelle da nativo americano e gli stivali di pelle, mostrandosi ancora una volta sfrontatamente rock. Cosa c’è, infatti, di più rock di raccontarsi come in difficoltà, bisognoso di quell’amore cantato in Maledetto cuore, seconda traccia in tracklist, indubbiamente la migliore di questa tornata? Il fatto è che da quando lo abbiamo visto gigioneggiare sul palco di Sanremo nel febbraio 2020, brano presentato in gara quella Gigante dedicata a suo nipote, giusto il tempo di farla, “rubare” la borsetta a una signora del pubblico, e finire come tutti chiusi in casa per i lockdown, a Piero ne sono successe davvero di tutti i colori, nel bene, ma soprattutto nel male.
Prima il Covid, appunto, a fermare quello che era il lancio di un album importante. Poi una ennesima reunion con Ghigo Renzulli, sotto lo storico marchio Litfiba, già avvenuto in studio e sul palco, ma stavolta con un sapore amaro, quello della definitiva fine di una storia così importante. Quindi, e qui davvero è arrivata la botta finale, uno choc acustico arrivato in studio, dove un fonico non ha ben calibrato la potenza del suono che gli ha letteralmente sparato sui timpani, choc che sulle prime ha portato a uno svenimento, e poi a un acufene incurabile, un danno irreversibile che per un cantante non è solo invalidante, ma una specie di lutto, l’impossibilità di tornare a ascoltare come prima, nello specifico le frequenze alte che si perdono per sempre. Una disabilità che è nei fatti un incidente sul lavoro di quelle che, non stessimo parlando di cantanti e di arte, porterebbe a un prepensionamento, ma che invece si traduce solo come uno stop forzato, niente album nuovo e tour per almeno un anno, e poi un ritorno che sa di cautele, le cuffie che filtrano i suoni per renderli assai più morbidi di come non arrivino a noi. Uno choc acustico che, unito proprio alla fine violenta dei Litfiba, i dissapori con Ghigo talmente cristallizzati da essere davvero insanabili, esattamente come per l’acufene, ha portato alla depressione, Piero lo ha raccontato senza nascondersi dietro ipocrisie e cautele, lui in fondo è uno che ci ha sempre messo la faccia, stavolta anche. L’aiuto degli specialisti sola risorsa in grado di rimetterlo letteralmente e letterariamente in piedi, pronto a tornare di fronte al suo amato pubblico. Con un album quadrato, preciso, solido come il monolito di Kubrick. Canzoni che hanno suoni rock, certo, con tutte le cifre tipiche di Piero Pelù, quello solista come quello coi Litfiba del periodo aureo (parlo di mercato). Quindi chitarroni vagamente distorti, spesso dalle parti del tex-mex, ritmiche spinte, slide, e lui lì a cantarci sopra col suo ormai storico birignao. Dodici canzoni, tra la quale una versione alla Blaze of Glory di Il mio nome è mai più, nel ventennale, stavolta senza Ligagabue e Jovanotti, del resto di guerre ce ne sono troppe in giro, anche oggi. Di Ucraina, invece, Piero ci ha parlato nel singolo che ha anticipato il tutto Novochiok, sghembo e trascinante come sempre.
E sempre da quelle parti, almeno musicalmente, si muove Elefante, sonorità che guardano forse più ai Novanta che agli Ottanta, un’altra gemma di questa collana navajo che Piero tira fuori senza paura di confrontarsi con un mercato che sembra riconoscere solo la trap, figuriamoci un disco di un ultrasessantenne tutto suonato e spinto. Se mai dovessimo indicare un brano che ci sembra un riempitivo, ma è giusto per rompere il capello, o le palle, fate voi, è Tutto e subito, scritto con i Fast Animals and Slow Kids, non indimenticabile. Per il resto una lama. Strano modo che ha il ragazzaccio di affrontare la propria fragilità, prendendola a schiaffi accompagnato da una ritmica incalzante, come in Baby Gang, canzone che potrebbe per certi versi ricordare proprio gli esordi dei Litfiba, per sonorità e attitudine. Non per nulla al suo fianco, stavolta, ci sono i Calibro 35, e si sento. Salvo poi tornare lì, da qualche parte nei deserti dell’Arizona, un serpente a sonagli che trilla nella polvere, l’aria che di notte si fa più fredda. Canto è un manifesto dell’attitudine rock di Piero Pelù, una ballad che si fa tirata, cassa dritta, sì, ma decisamente di altro genere rispetto a quelle sentite all’ultimo Sanremo. Un brano che rivendica l’aver messo sempre se stesso e le proprie idee dentro le canzoni, alla faccia dei benpensanti. Un disco davvero a fuoco, nel senso di messo a fuoco, ma anche di pronto a dar fuoco a tutto intorno. Roccioso, tagliente, dove i drammi recenti sono tutti racchiusi nel brano Baraonde, dove Piero invoca di tornare quello che era prima, citando esplicitamente l’acufene, e lo fa dimostrando che in fondo già ci è tornato. “Onde di bombe, ormai vivo in testa con le bombe” canta, salvo poi implorare “Voglio uscire da questo limbo. Sono stressatissimo, rivoglio l’orizzonte. E sono scoppiatissimo, non farmi più domande. Ma sono carichissimo per nuove baraonde”, più chiaro di così.
Mica per niente la traccia successiva è Schiacciamali, brano che parla del mondo, certo, di “bombe su case e ospedali” o “la violenza della fame, nella guerra un bambino che cade”, ma che può essere anche letta come una pagina autobiografia, “scaccia i giorni amari”, certo, ma anche “scaccia ogni dittatore” e poi “l’ignoranza è il pane degli squali”. Usare se stesso come mirino per raccontare il mondo, solo i grandi lo sanno fare. La conclusiva Deserti, distorta, eterea, polverosa, decisamente suggestiva, brano che difficilmente sentiremo in radio, ma che ben rende l’idea di uno spaesamento, quello vissuto da Piero Pelù in prima persona, e che ha portato a questo lavoro così ferreo nel mettere in scena lo zeitgeist. Un album affatto ruffiano, nella scelta dei suoni, e tanto più in quella dei temi trattati. Il disco perfetto per un artista come Piero Pelù, rockettaro dentro, lì, a torso nudo, una seduta dal terapista fissata per settimana prossima, le cuffie attutite per non compromettere definitivamente il suo udito, ma intanto generosamente pronto a farci pogare con la testa connessa.