Ben Affleck, Matt Damon, Jason Bateman, Nike, Michael Jordan: staccarsi da un mito è certamente possibile. Con Affleck alla regia, Air – Storia di un grande salto riesce nell’intento. Ma già che c’erano, si poteva spingere un po’ di più sull’acceleratore. Insomma, un po’ di arroganza te la potevi concedere Ben, amico mio. “Una storia americana” ma depurata di quegli elementi di epicità che fin da sempre caratterizzano i film “tratti da una storia vera”. Capisco la voglia di dimostrare che dietro le grandi imprese c’è molto altro: incertezza, fatica, ragione e non-ragione. Non solo pacche sulle spalle e “ce la farai ragazzo [pugnetto gagliardo sul petto]”, anzi. Quando l’agente di Michael (Chris Messina) cerca di alzare i toni con Sonny (Matt Damon) minacciandolo con frasi tipo: “Ti mangerò le palle, ingoierò lo scroto” o “Piscerò e cagherò sulla tua tomba e scoperò il cranio nei bulbi oculari”, Sonny risponde beffardo: “Andiamo amico, siamo due uomini di mezza età e nemmeno più tanto in forma”. Della serie, va bene The Wolf of Wall Street ma l’Ammmerica è anche molto altro. Ma davvero c’era bisogno di rendere così umana la vicenda? Può un Dio (cestistico) farsi sagoma vista di spalle, muta e sfocata? Michael, infatti, è una figura sfuggente e nel corso dell’intero film gli sentiamo dire solo “Pronto?” quando l’accordo che cambierà la storia dello sport business è finalmente chiuso. Certo che può, e questa ne è la prova.
Non fraintendetemi, non sto dicendo che Air sia brutto. La sceneggiatura è notevole e divertente; la colonna sonora (Dire Straits, The Clash, The Alan Parson Project, Springsteen) fornisce la cornice perfetta per un film che mette in scena gli anni ’80. Credetemi, funziona anche con il suono ovattato di un impianto da multisala di provincia (abbiate pietà di me). Di quest’epoca però vediamo soprattutto i grigi uffici che stanno dietro alle giacche colorate, le camicie di flanella e le polo arcobaleno che nell’immaginario comune caratterizzano quegli anni. L’unico personaggio che cerca un’eccentricità fuori dalle righe è Phil Knight (Ben Affleck) nei panni del genio-imprenditore-orientaleggiante-fan del Dalai Lama fondatore della Nike. Progressista, certo, ma con la Porsche color uva; il massimo della sua carica lo sprigiona con un «Facciamolo cazzo». Che grinta, Phil. L’unica che dimostra di esser cosciente di vivere la leggenda è la madre di Jordan, Deloris (Viola Davis). Fiera di suo figlio e certa del suo futuro ingresso nel gotha dello sport, non si tira indietro quando si tratta di fare scelte controcorrente. È lei che decide la destinazione dei piedi di Michael, ribaltando i pronostici che lo vedevano già con addosso le scarpe in pelle dell’Adidas. Purtroppo, però, ci sono anche persone banali come me, che avrebbero semplicemente voluto godersi l’energia di una storia del genere, la nascita del più grande marchio sportivo del mondo. Uscire dalla sala e imbruttire il primo stronzo schiacciandogli in faccia.
Invece, mi sono trovato di fronte un’operazione di normal-washing, humble-washing, siamo-anche-noi-umani-washing che taglia la testa di una saga che in The Last Dance era stata portata al suo massimo. Mi chiedo: andava veramente fatto? Non lo so. Ma quello che avrei decisamente evitato sono i reminder su Phil Knight, buon’anima, che donò 2 miliardi di dollari in beneficenza. O quello sulla madre Deloris, la cui caparbietà permise a “a molti atleti e alle loro famiglie di guadagnare miliardi di dollari”. Servizio civile universale scansati. Come a voler riportare il divino sulla terra, il film raggiunge il suo climax “nel discorso” (almeno uno ce ne doveva essere, che cazzo) di Sonny a Michael in cui viene presentata “la” scarpa, la numero uno delle Air Jordan. Lo fa scompigliando il programma, come il suo amico George Ravelling gli aveva raccontato a proposito dello speech di Martin Luther King (“I have a dream”) cambiato al volo sul momento. Al volo, come schiacciava His Airness. E se questo doveva essere un grande salto, a me è parsa più una salita di scale, faticosa, col fiatone. Compiuta da uomini de panza. Cool come pantaloni da jogging e con ai piedi dei mocassini degni del miglior turista tedesco. Umani, troppo umani. Ma perché farlo con la storia delle storie, quella più americana che c’è? Chissà, magari mi sfugge qualcosa. Di certo, stasera un bel videozzo motivazionale con gli highlights di Michael non me lo leva nessuno. Palla in mano, occhi del mondo addosso, lingua di fuori e canestro sulla sirena. Bang.