35 anni, faccia da bravo ragazzo e milanese. Luca Ravenna, teoricamente, non dovrebbe far ridere. Invece, chi lo conosce perché lo ha visto dal vivo o su Comedy Central, sa bene che fa ridere eccome. Bravissimo nelle imitazioni lampo (Miss Keta, persino! Più spesso i giapponesi, i romani, gli stessi milanesi), di frequente sparpagliate in mezzo a una routine per permetterle di scalciare più forte, Ravenna è un maestro delle pause e dei dettagli. Ne piglia uno, lo gira e lo rigira, poi divaga, apre e chiude parentesi. Infine, scatta e spiazza. L’inverso di chi parte dai grandi topoi della comicità dell’osservazione (la suocera, la moglie, sud e nord) per poi, puntualmente, banalizzare tutto. Il suo paradosso è essere stato conosciuto per la pallida partecipazione alla prima stagione di LOL, ma il pallore non è una caratteristica che gli appartiene.
Iniziamo da te. Parlaci delle novità all’orizzonte.
Il 14 di questo mese verranno lanciati i biglietti del nuovo tour, che inizierà a ottobre. Stiamo anche caricando altri video su YouTube e cercando nuove piattaforme che possano essere utili alla causa. Non è facile diffondere stand-up, tanto che tra poco, un po’ alla “vecchia maniera” – penso a Gaber, Svampa –, farò uscire il mio ultimo spettacolo su vinile. YouTube e vinile, due mondi.
Ritieni che Comedy Central, dove sei di casa, sia la prova che oggi i comici sono comunque assolutamente liberi di esprimersi o credi che, guardando al mainstream, oltre l’isola felice di Comedy Central, ci sia poco da stare allegri?
Mah, lo stand-up è una narrazione comica, chiamiamola così, che suscita un certo interesse anche fra i grandi broadcast. Vorrei, a tal proposito, citare, come forma di tributo, figure come Andrea D’Aguanno, Federico Andreotti e Alessandro Grieco che, agli albori, fecero un aut aut a Comedy Central: “O lo stand-up lo facciamo sporco o non ne vale la pena. Per una comicità più per famiglie ci sono già comici come Battista”. Ecco, se invece di affidarsi a persone coraggiose con un nome e un cognome ci si affida solo agli algoritmi è chiaro che la faccenda si complica, tutto si edulcora.
Poiché per un artista credo sia detestabile definirsi, ci provo io a definirti: ti ho sempre visto come l’anti-Pucci. Che ne dici?
Beh, mi fa piacere, dai (scoppia a ridere, ndr). Lui è bravo, eh. Forse lo stacco fra noi e la sua generazione sta nella ripetizione del materiale. Loro ripropongono spesso il materiale del passato. I tour talvolta escono come “reboot”, “rigenerati”. Perciò in fondo ti dico grazie, anche se Pucci, non dimentichiamolo, è un fratello nerazzurro.
Milano. Ci siamo arrivati. Repubblica, qualche giorno fa, proponeva un confronto tra il “prima” e il “dopo” il boom immobiliare della città. Dalla “Milano da bere” alla “Milano del Bosco Verticale” sembra essere rimasta immutata la spinta al cambiamento, alla modernizzazione. Tuttavia, l’attuale caro affitti rischia di far passare la Milano del Bosco come ancor più inafferrabile di quella godereccia dell’epoca craxiana.
Ero bambino ai tempi della “Milano da bere”, ma ricordo bene Mani pulite. Negli anni ’90 si aveva ancora la sensazione che la mela da mordere fosse infinita, invece eravamo già al torsolo. Oggi siamo ai semi. Io ho trovato casa a Roma, ad esempio, dove vivo da 16 anni. Lì sparano affitti alti, ma puoi trattare. A Milano no, evidentemente si possono permettere questa rigidità. Mi pare che anche l’Amministrazione comunale, Sala e Maran in primis, stiano cercando di metterci una pezza. Le bolle prima o poi esplodono, e quando esplodono fanno male. A Milano c’è qualcosa che non va, mi pare evidente: bello il drink, bello il nuovo skyline, ma intanto è la terza città più inquinata al mondo.
Restiamo in città. I Ferragnez, la prossima estate, entreranno nella casa dei loro sogni a CityLife. Qualche suggerimento?
Ma, tipo, come gestire al meglio il riscaldamento centralizzato?
Sai, qualche settimana fa Chiara faceva un appello ai fans via social, “ho bisogno di ispirazione per arredarla”.
Cosa vuoi mai dire alla Royal Couple italiana? Non credo abbiano bisogno dei mei consigli, spero solo che Milano non diventi totalmente inaccessibile in quanto “altamente instagrammabile”. Perché poi ci sarebbe l’invasione di città come Piacenza, Lodi. Un meccanismo rischioso.
Dopo 37 anni lo Zelig rischia la chiusura. Vedi altri locali che potrebbero compensare questa perdita storica?
Una città che ha già perso il Derby e tante piccole sale underground che hanno creato il nostro tessuto comico non può permettersi di vedere affondare anche lo Zelig. Forse il Santeria potrebbe raccoglierne l’eredità, ma non ne sono certo. Parlo da esterno, ma viene da chiedersi come mai un locale da più di 200 posti, sempre pieno, rischi la chiusura. Forse, in parte, potrebbe essere rivista la programmazione. Lo Zelig è una bomba, un comedy club vero. Se avessi i soldi lo comprerei, ma non li ho. E quindi lo consiglio a Chiara Ferragni, che potrebbe investire su qualcosa che ancora le manca. Un investimento più sociale che social.
Ha destato commozione la lettera che Renato Pozzetto ha recentemente inviato a Enzo Jannacci (“Caro Enzo, tra poco sarò con te lassù. Fatti trovare con il pianoforte e la chitarra”). In un passaggio della missiva, scrive: “Al teatro Lirico, dedicato al tuo amico Gaber, si sono dimenticati di te! Non prendertela, sono cose che succedono in questi tempi”. Ecco, credi che stiamo vivendo un’epoca in cui la memoria si è accorciata?
Quando si parla di artisti credo che sia purtroppo fisiologico che la memoria un po’ svanisca. La comicità ha a che fare col tempo che narra. Jannacci, e non solo in chiave comica, credo sia stato uno dei più grandi autori del secondo dopoguerra. L’anno scorso mi sono esibito quattro volte al Gaber ed ero fierissimo. Mi piacerebbe che un teatro fosse un giorno dedicato a Jannacci, ma credo che la memoria si conservi, si rivitalizzi, mostrando certe cose, certi umori. Tornando allo Zelig, per dire… Ha avuto il coraggio di riproporre pezzi degni di Nanni Svampa, del Derby. Poi è iniziata un’altra storia, lo Zelig è diventato anche un programma televisivo di grande successo. Il gioco, però, tormentone dopo tormentone, alla fine, si è rotto.
Hai la percezione che ciò che voi comedians dite, oltre a far ridere, abbia ancora il potere di fare incazzare qualcuno?
Ne parliamo spesso, fra noi. L’obiettivo principale è sempre far ridere. Se fai incazzare qualcuno devi avere le spalle larghe per sostenere l’aggressione. Devi essere certo che la tua battuta più pesante sia anche la migliore. Non sono un grande fan delle porcate gratuite, sparare a zero tanto per colpire è troppo facile, puerile. Meglio sparare su te stesso, così intanto colpisci anche gli altri.
Quindi a chi guardi quando hai bisogno di un’ispirazione?
Vado da Aldo, Giovanni e Giacomo a Louis C.K. con le tante cose che possono starci in mezzo. Penso anche ad amici/colleghi come Edoardo Ferrario e Stefano Rapone. Tutta gente che mi stimola ad alzare il livello della mia proposta.
E il livello di LOL 3, invece? La nostra Grazia Sambruna, in un recente pezzo, ha scritto che il format è già morto. Concordi?
Il primo LOL ha avuto un successo enorme e inaspettato. Eravamo a fine lockdown, tutti bolliti. LOL è stata un’autentica bomba su cui Prime ha investito molto. Per un comico, però, sapere già in anticipo come funziona un programma del genere smorza la spontaneità e diminuisce di parecchio l’effetto sorpresa. Per questo replicare l’impatto della prima stagione è stato, ed è tuttora, difficile. Forse servono solo nuove idee, ma intanto lo ammetto: sono molto contento che il LOL più autentico sia stato il primo.
Ti offro un mio pensiero: sono convinto che ogni sera, prima di dormire, ti inginocchi davanti all’immagine di Pio e Amedeo e li ringrazi per l’esempio comico che per te rappresentano. Smentisci o confermi?
Ok [ride, ndr]. Dunque, premettendo che a volte fanno molto ridere, Pio e Amedeo, che alla fine sono i classici “adorabili cialtroni”, mi delusero abbastanza quando si imbarcarono in quel celebre monologo, in prima serata su Canale 5, incentrato sul fatto che secondo loro, in Italia, non si può più dire più nulla. È un discorso da vecchiardi che incarna un pensiero vergognosamente pretestuoso. Non è vero. Fare un pezzo sul fatto che non si possa più dire “ne*ri”, “ebrei”, “fro*i” è miope, il dibattito non dovrebbe essere sul termine in sé. Semmai bisognerebbe interrogarsi sul perché termini simili risultino così odiosi, offensivi, e perché certa gente abbia ancora un vivo interesse nel ripeterli ogni volta che può. Quel monologo fu un’occasione persa: un pezzo sul fatto che non si possono dire certe cose, ma in realtà le stai dicendo. Vuoi davvero uscirtene con un bel pezzo stereotipato sugli ebrei spilorci? In quel contesto te lo avrebbero lasciato fare e allora, se ci tieni tanto, fallo e vediamo cosa salta fuori.