“La mamma non tornò, come la corrente elettrica”. Inizia così il terzo capitolo del nuovo romanzo di Rosella Postorino, Mi limitavo ad amare te (Feltrinelli), candidato al Premio Strega 2023. E poteva benissimo chiuderla lì. È da quando uscì nel 2018 Le assaggiatrici (Feltrinelli) che di Postorino si dice il meglio. C’è chi parlò ai tempi di un capolavoro e c’è chi annusa un destino simile per questo libro. L’ennesimo. Il secondo che a scavare nella Storia trova l’oro (pare). Gli ingredienti, in linea generale, ci sono tutti. Lo scenario, in entrambi i casi, è la guerra. Una volta raccontato con il punto di vista di una donna, Margot Wölk, in quest’ultimo caso filtrato da una vicenda molto particolare, quella dell’esodo di 46 orfani o bimbi abbandonati dalla città di Sarajevo in Italia. Aggiungiamo un precedente (è il 2013): i figli delle carcerate di Rebibbia in quel suo Il corpo docile (prima Einaudi, poi Feltrinelli). I bambini di Rebibbia, le donne di Hitler, i bambini di Bjelave. Quello che fa Rosella Postorino potrebbe sembrare onorevole (e lo è), perché si dà l’occasione a migliaia di lettori di conoscere storie che valga la pena di raccontare. Ma che fine fa la letteratura? C’è differenza tra espediente narrativo, contesto, e abuso. E ora la domanda: ma davvero Rosella Postorino è così brava come dicono?
La risposta è: non lo so. Non so se sia brava (è più brava di molti parvenu, ma decisamente meno di altre grandi autrici, per esempio Luisa Adorno), ma qualcosa – certamente – la sbaglia. La sensazione, leggendo quest’ultimo libro, è che la scrittura maltratti il tema storico tanto quanto la forma romanzo. Ne Le assaggiatriciquesto problema si avvertiva di meno (ma era presente), mentre qui è del tutto evidente. Mi limitavo ad amare te non è granché ispirato e, allo stesso tempo, non sembra limato a sufficienza. Non ti dà la sensazione di quei libri che vengono giù incessanti, che non puoi fermarli. Tuttavia, non dà neanche la sensazione di essere un libro raffinato, elegante. Non è neanche il David Grossman di A un cerbiatto somiglia il mio amore. Non c’è, cioè, senso della misura tra ispirazione e cesello. Che poi è un altro modo di dire che forse, nonostante le buone premesse, questo libro è un piccolo fallimento. Certo, è ciò che piace. Tasmania di Paolo Giordano era scarso nella trama, ma contava il tema; questo è monco dello stile, ma conta la trama (che poi, in realtà, a contare davvero è anche qui il tema). Una letteratura mutilata che raccoglie consensi e non c’è nulla di strano. Sono pochi gli scrittori, oggi, in grado di tenere insieme tutto: storia, Storia e poesia.
La risposta è: no (ora ho le idee più chiare). Rosella Postorino non è così brava perché non fa il lavoro che dovrebbe. Misurarsi con la storia non è facile, richiede non solo lo studio che lei sostiene di aver portato avanti (anche attraverso il dialogo con alcune vittime di quel gioco crudele che fu il 1992 di Sarajevo), ma la capacità di farne letteratura. Postorino fa esattamente il contrario. Usa la lingua per semplificare, per ridurre all’osso la materia storica, privandola di qualsiasi complessità. Così la Storia diventa scema e il tema diventa abbordabile anche per un Premio come lo Strega. Un attimo, facciamo un passo indietro. Non è vero, mi sono sbagliato. La risposta è: sì. Sì, Rosella Postorino è bravissima perché questo è quello che chiedono (l’editore? I lettori sicuramente). Non chiedono altro. Ma è pensare che i lettori chiedano solo questo, piccoli bignami sentimentali, a dover infastidire. Anche perché Rosella Postorino qualcosa ce l’ha, è innegabile. Quella madre che non torna, come la luce elettrica, è un’immagine struggente, muta come alcuni dolori. Ma poi tutto il resto, una forzatura fatta per non buttar via le settimane passate dietro a questa storia, senza rendersi conto di non esserne all’altezza. E senza il rischio, oggi, di accorgersene a futura memoria. No, perché della rosa dei 12 allo Strega non si farà a meno di lei, la ritroveremo nella cinquina. E forse…