Prendi della scienza buona per le apocalissi e condiscila con un po’ di esistenzialismo mitteleuropeo e novecentesco, rendi i personaggi funzionali ad alimentare un senso di colpa, ma scordati la storia. «Forse sta tutta lì la fissazione di alcuni di noi per i disastri incombenti, quell’inclinazione verso le tragedie che scambiamo per nobile, e che costituirà, credo, il centro di questa storia: nel bisogno di trovare a ogni passo troppo complicato della nostra vita qualcosa di ancora più complicato, di più urgente e minaccioso in cui diluire la sofferenza personale. E forse la nobiltà, in tutto questo, non c’entra davvero niente». Sta qui il cuore del libro di Paolo Giordano, Tasmania (Einaudi, 2022), che alcuni dicono papabile per il Premio Strega, se non fosse per il fatto che fa parte da anni del Comitato direttivo, ma tutto si può in questo mondo accomodante. Certo, se questa frase avesse il respiro che vorrebbe avere, allora anche la scelta del tema da parte di Giordano potrebbe non avere nulla a che fare con la nobiltà. Sembra, al contrario, una scelta di comodo, modaiola, adatta a vendere in un periodo di ipersensibilizzazione (ma scarsa empatia). Il cuore del libro, si diceva, tutto in questa frase citata; alla fine del primo paragrafo del primo capitolo della prima parte, In caso di Apocalisse. Pagina 1, per intenderci. Il ché ci spinge a chiedere all’autore cos’altro ci sia da leggere, se la morale della favola viene sbattuta in faccia al lettore dopo appena qualche riga.
Forse, mancando di suggestioni e intreccio narrativo, era fondamentale arrivare al punto, prima che anche i fedelissimi, i lettori infaticabili, stramazzassero al suolo. Cioè, rinunciassero alla seconda pagina. Abbiamo un gruppo di figure sformate, ognuna con una caratteristica molto specifica, che farebbe ben sperare in un (ormai sempre più raro) romanzo di impronta filosofica (come un Lewis, o un Candido di Sciascia). Il convertito, lo scientista deluso, il padre che non parla con il figlio, l’incontentabile. Gente intelligente, che si interroga, stupidamente impantanata (e proprio perché “stupidamente”, ci si aspetta che lo spantanarsi, una volta capito l’inganno, possa essere facile). Ma tutta quest’intelligenza, decantata in quarta di copertina e che parrebbe essere la condizione minima di un romanzo che voglia trattare, tra le altre cose, la crisi climatica e la minaccia nucleare, non se ne trova neanche un po’. Non solo. Si trova il contrario, l’epurazione dell’intelligenza da ogni pagina, la convivenza coatta di pesantezza letteraria e autolesionismo antropocentrico. Da un lato il libro è narrativamente nullo, spoglio, fatto di viaggi ingiustificati e personaggi bidimensionali. Dall’altro a prevalere su tutto è la costante colpevolizzazione della specie umana, senza possibilità di vero riscatto.
Al più, si può pensare di andare in Tasmania, terra incontaminata, paradiso laico, e per questo tutto fuorché un paradiso. Questo è l’aspetto più nocivo del libro: «Sì, ha aggiunto con maggiore convinzione, se fossi costretto a salvarmi, sceglierei la Tasmania». Un luogo illimitatamente lontano (perché, moralmente, sarà sempre troppo tardi, ormai, arrivarci). Ma soprattutto, un luogo dove, se costretti, si potrebbe pensare di trovare la salvezza. In poche parole, laddove una visione materialistica della realtà ha portato all’implosione della natura (tra pandemie e tragedie atomiche), si pensa a un paradiso fatto su misura del pensiero materialistico: «È abbastanza a sud per sottrarsi alle temperature eccessive. Ha buone riserve di acqua dolce, si trova in uno stato democratico e non ospita predatori per l’uomo. Non è troppo piccola ma è comunque un’isola, quindi più facile da difendere. Perché ci sarà da difendersi, mi creda». Tutti cercano una loro Tasmania (e non una bella storia, evidentemente), questo dovrebbe essere il senso del libro. Che sia per fuggire da problemi quotidiani, da un dramma familiare, da una crisi di portata planetaria che diventa motivo di depressione (e accade sempre di più), ogni cerca, in qualche forma, la salvezza. Ma se non ci si pone la domanda su quale tipo di salvezza valga la pena cercare, allora si continueranno a produrre minacce. Ma, soprattutto, non trovare risposte.