Di Gianni Agnelli, in letteratura, non solo si è scritto poco, come ricordava anni fa Giuseppe Lupo su IlSole24ore; ma ancora meno si è voluto leggere. Non tanto nelle sue biografie, nei suoi ritocchi giornalistici che da vent’anni, a ogni ricorrenza, alzano la testa come tanti piccoli insetti volanti che si alzassero in volo da un cespuglio urtato per sbaglio (o quelle piccole farfalle e mosche che fino a un momento prima avevi confuso con la sabbia ma che, calpestando forte con le infradito per non perdere l’equilibrio, hai poi fatto scappare). Non tanto nei ricordi, nelle interviste, nelle didascalie delle mille immagini che lo ritraggono, padrone del suo stile che mai sembra essere maturato, perché già bell’e fatto fin dalla giovinezza. Non tanto nei post e nei tweet dei nipoti vip e bruciati. Ma nei movimenti, nelle frasi, nelle risposte, in quella sintesi di edonismo manageriale a tratti squilibrata, ma così apparentemente naturale.
L’unica eccezione è una grande eccezione, si chiama Alberto Arbasino. Forse la più importante medaglia al valore a cui un grande italiano potesse aspirare, almeno fino al 2020, anno in cui Arbasino morì (ed era primavera). Non una forma metallica, una stretta di mano, ma un “condono” poetico ed erudito di un grande polemista, di un Dottore del buongusto. Di uno scrittore che negli anni ha saputo seppellire sotto la sua penna le smanie sconnesse di una società sempre zoppicante, a metà tra successo e autosabotaggio; e per questo manchevole di stile. Lui, che con quei Ritratti italiani, fornirà un’enciclopedia minima («nemmeno 100 nomi») non tanto dello stile italiano, quanto dello stile che fu, italiano o meno, preso in prestito da alcuni volti ma a loro sfuggente, superiore. Uno stile a cui guardare con nostalgia, perché altro, complesso, sconfinante. Tanto che ogni lemma, da quello per Pier Paolo Pasolini a quello per Federico Zeri, saranno solo messinscene per un più grande pegno al Costume, il cui canovaccio solo apparentemente sembra riferirsi ai nomi che fanno da titolo alle voci.
La prima fra tutte, comunque, resta quell’A di Gianni Agnelli, l’Avvocato, che prima di essere chiamato così, veniva (ri)conosciuto come «l’uomo delle macchine», o «Gianulasch», dalle sue donne, amori fatui e fiamme di una sera. Di Agnelli Arbasino scrisse: «possedeva l’allure e la verve di un sovrano settecentesco vivacissimo, e di un banchiere cosmopolita carismatico e seducente – benché producesse automobili non molto chic». E per questo lo scrittore si rammarica per non avergli mai domandato «come mai non applicava lo stesso ‘occhio’ anche alle macchine Fiat, in qualche fase di insofferenza per il look impiegatizio nei prodotti di serie e di massa…». Lui, che aveva così bene saputo cucinare la «ricetta di Stile non certo italiana, benché prescritta dai nostri migliori trattatisti: maneggiare i temi leggeri, e leggermente i più gravi. Evitare con chiara sprezzatura ogni pomposità o affettazione [qui, evidentemente, pensando a quel Baldesar Castiglione de Il Cortegiano, d’altronde citato poco prima, ndr]. Rimuovere con grazie e decisione gli ‘scocciatori’ verbosi e lagnosi. (Tipicamente, buttar là a qualche ‘intellettuale’ pieno di sé, con noncuranza, una informazione di alta cultura che non era ancora arrivata)».
Non propriamente colto, bensì napoleonico. Risposta pronta, frutto dell’inventario necessario a ogni buona strategia di guerra, le cui armi da elencare sono però titoli di tesi («di Guido Carlo, Bruno Visentini, Francesco Saverio Nitti…») e amicizie incomparabili che ora rivivevano in lui, dal gallerista Mario Tazzoli al critico Luigi Carluccio, che aveva le sue stesse sopracciglia boscose. E poi quella noncuranza per la discendenza della madre, fatta di dignitari pontifici, collezionisti e senatori americani: «Molto più tardi, chiacchierando di Caravaggio, gli chiesi come mai si chiamasse ‘Bourbon del Monte’ (quando i Borboni non erano ancora re di Francia) l’antica famiglia toscana ed umbra di sua madre Virginia, nonché del cardinale protettore del Merisi a Roma. Rispose, mesto: “Lo sapeva Pierrà. Lo sapeva Uguccione” (i cugini Bourbon del Monte e Ranieri di Sorbello). “Ma non ci sono più”». Ora, che anche lui non c’è, che sono vent’anni, che Torino è stata quel che non sarà più, dopo i Savoia, dopo gli Agnelli, e girano ancora auto dal «look impiegatizio», dov’è finito l’italiano, la dolce vita, l’erudizione da spendere nei bar dei velodromi, quel rimandare a una cultura sì profana, ma degna del proprio nome. Ora che non c’è, lui che credeva che «le cose belle [fossero] etiche» (lo disse a Sally Bedell Smith su Vanity Fair), sappiamo noi capire quanto giusta sia la bellezza?