Una volta Umberto Eco scrisse: «I perdenti, come gli autodidatti, hanno sempre conoscenze più vaste dei vincenti, se vuoi vincere devi sapere una cosa sola e non perdere tempo a saperle tutte, il piacere dell'erudizione è riservato ai perdenti. Più cose uno sa, più le cose non gli sono andate per il verso giusto». Matteo Messina Denaro, oggi, non solo è un perdente (almeno agli occhi di tutti coloro che sui giornali e nelle televisioni parlano di vittoria della Stato e della giustizia sul “Male”; salvo poi tornare a dormire rispetto a qualunque male meno “ipostatizzato” della mafia). Messina Denaro è pure un autodidatta. Si è sempre rammaricato di non aver proseguito gli studi, di non aver neanche finito l’istituto tecnico commerciale. Autodidatta, perché fuggiasco costretto a leggere, tanto da arrivare a dire: «Oggi mi ritrovo ad aver letto davvero tanto, essendo la lettura il mio passatempo preferito». E proprio lui si definisce, a livello culturale, «un buono a nulla (visto che non ho le basi) che se ne intende un po’ di tutto». Io me lo immagino, criminale di guerra in una stanzetta con pavimento in legno e carta da parati, affacciato su una piazza in un romanzo di Balzac, a discettare di Platone e mascherando il nome dei suoi amici, infidi, di penna.
Come l’ex sindaco di Castelvetrano Antonio Vaccarino, con cui intrattenne uno scambio epistolare firmandosi Alessio (e chiamando l’interlocutore Svetonio). Al suo Svetonio confessava, con l’umanità propria degli antieroi, i suoi pensieri e le sue opinioni, solleticato all’idea – ma lui non credo lo sapesse – della tzedaka, la giustizia divina, che non redime il male attraverso il male. Al contrario di quanto faccia, per Messina Denaro, la giustizia di oggi: «Quando uno stato ricorre alla tortura per vendetta che Stato è. Uno stato che fonda la giustizia sulla delazione che Stato è. Hanno istituito il 41 bis e hanno sospeso i diritti dei carcerati, nelle carceri praticano la tortura. È un paese civile che fa questo? Facciano pure ma ci sarà sempre chi non svenderà la sua dignità». E il pensiero va inevitabilmente ad Alfredo Cospito, l’anarchico a quasi 100 giorni di sciopero della fame, costretto al 41 bis. Una giustizia che dà una botta alla politica e uno agli umori della società. Non a caso il 41 bis venne allargato dopo la strage di Capaci, nel pieno del furore popolare. Anche su questa compromissione della giustizia con la politica, Messina denaro aveva qualcosa da dire: «Jorge Amado diceva che non c’è cosa più infima della giustizia quando va a braccetto con la politica ed io sono d’accordissimo con lui».
Non sono dei giudizi affrettati, né del colpevole che punta a una riduzione della pena. Al contrario. Anche Giovanni Tumminello, il concessionario a Palermo di Messina Denaro, lo ricorda come un «colto. Fece citazioni storiche, non ricordo a che proposito ma venne fuori Garibaldi, parlò anche di filosofia. Certi clienti si dilungano su cose personali o discutono di auto, lui no. Mi disse solo che da ragazzo aveva avuto una macchina potente». E su questa macchina potente torneremo a breve. Ma torniamo al vittimismo. In Messina Denaro è del tutto assente e la letterarietà delle sue opinioni lo dimostra. Non aveva paura di niente, sicuramente non della pena dura. Non è questo il punto. Lui, che si paragonava nelle sue lettere a Benjamin Malaussène, il protagonista e costante capro espiatorio dei romanzi di Daniel Pennac, che proprio come lui capì che l’uomo (aggiungeremmo moderno e miope) si nutre non di verità, ma di risposte; lui, che aveva nel covo una biografia di Putin (ma avremmo visto bene anche una raccolta di scritti di quel guerriero della fede che fu Francesco d’Assisi, che non opzionò mai il martirio durante le crociate ai fratelli francescani, anzi spinti, talvolta, ad andare e morire); lui, che sembra quasi si sia lasciato prendere (stando alle dichiarazioni del suo autista); lui, era percorso (o meglio attraversato) da quel titanismo malinconico, a tratti nichilista, che gli farà dire: «Ho revocato i miei avvocati e non mi difenderò più, facciano quello che vogliono. La mia non è una sfida, non lancio sfide con le scartoffie, per me la sfida ha un valore nobile».
Quella macchina potente, posseduta in gioventù, a dispetto della vita discreta a cui sarà stato costretto negli anni a venire (e che danno perdere anni nella sfacciataggine e poi altri trenta nel mutismo autoimposto, quando avrebbe potuto vivere di giornate frugali). Quella macchina che ha dato tutto, in breve tempo, e di cui l’eco è rimasta per decenni e ha continuato a intimorire. Cos’altro aspettarsi da un lettore di Nietzsche, come ricordano gli amici di gioventù, che parlano anche di libri di romanzieri famosi (e, chissà perché, il pensiero va a Dostoevskij), convinto che si dovesse continuare a staccare a morsi la testa del serpente, pur sapendo che un’altra volta ci si troverà avvolti nelle spire dell’eterno ritorno. Ma qui, anche con stoicismo, Messina Denaro mostra tutto il suo fatalismo: «Un uomo non può cambiare il suo destino ma lo può vivere con dignità, da uomo vero».