L’ultimo Natale l’ho vissuto con queste sue parole fissate in testa: «Natale non è una favola per bambini, ma la risposta di Dio al dramma dell’umanità in cerca di pace». Risalgono all’Angelus del 25 dicembre 2009 e le pronunciò Papa Benedetto XVI. Si riferivano a un’altra guerra, ma valgono altrettanto per quanto accade in Ucraina. Uno dei grandi punti di forza di Joseph Ratzinger è stato quello di parlare al mondo moderno, ponendosi come cuspide nel presente, per far sì che la parola cristiana si facesse strada. Un po’ come quei narvali che attendono con il corno puntato verso la meta, che il blocco di ghiaccio davanti a loro si sciolga fino a spaccarsi, aprendosi come nuova via. Perché il presente, prima o poi, si spaccherà e già ha iniziato a sciogliersi.
Benedetto XVI è il fautore del destino della Chiesa a cavallo tra XX e XXI secolo. È grazie a lui che ho trovato la fede. Un Papa e un teologo che ha saputo guardare all’amore come discorso prioritario non tanto della fede, quanto della dignità umana. Dignità che si può raggiungere solo fornendo di contenuto l’amore, riempendolo di Verità. Scriveva così, in Caritas Veritate: «Senza verità, la carità scivola nel sentimentalismo. L'amore diventa un guscio vuoto, da riempire arbitrariamente. È il fatale rischio dell'amore in una cultura senza verità. Esso è preda delle emozioni e delle opinioni contingenti dei soggetti, una parola abusata e distorta, fino a significare il contrario».
Benedetto XVI è stato una delle figure più importanti della storia recente, in grado di sopravvivere a se stesso e persino al suo ruolo. Quando decise, a febbraio del 2013, di rinunciare alla carica di Vescovo di Roma, per diventare il primo Papa emerito dopo quasi un millennio, dimostrò ancora una volta quando la Chiesa necessitasse di una guida solida in un periodo non solo di liquidazione totale dei grandi valori, come Nietzsche aveva in qualche modo immaginato e promosso, ma anche di restaurazione di nuovi dogmi. Un periodo in cui il relativismo stesso sembra diventare paradigma assoluto. In cui la libertà è insignificante, non perché assente, ma perché esercitata senza dare significato reale alle azioni.
Questo è il messaggio del bellissimo L’elogio della coscienza: La verità interroga il cuore, in cui Ratzinger scrive: «Dove Dio scompare, scompare anche la dignità assoluta della vita umana». Non si tratta di dignità, di diritti umani, ma di assolutezza, di inviolabilità. Perché, ci insegna Benedetto XVI, il liberalismo delle democrazie occidentali, che vorrebbero far risalire la nascita dei diritti alla nascita della loro dottrina, dimenticano che si rischierà sempre un regresso all’infinito, se non si pone all’inizio di tutto qualcosa di inamovibile, di non attaccabile, di eterno. Questa eternità è Dio.
Muore non soltanto un teologo raffinato e profondo, che ha vissuto le contraddizioni interne alla Chiesa e intorno a essa, nel mondo laico, che ha dovuto sopportare fin dal suo insediamento l’ignominia, la continua offesa, un attacco costante. Non muore, cioè, soltanto il nome più pesante che la Chiesa abbia avuto in tempi recenti, il grande Prefetto della Congregazione della fede, poi decano del collegio cardinalizio, Papa e Papa emerito. Ma muore anche l’uomo ordinario, costante, studioso e per questo umile, colto ma mai astratto, che ha permesso a molti di legarsi a quel motto agostiniano del credere per intendere e del godersi la fortuna di amare: «Giovane amico, se ami questo è il miracolo della vita».
Benedetto XVI, al contrario di quando vorrebbero portare a credere i luoghi comuni di tanti detrattori, non ha mai sostenuto altro che una fede diretta, a suo modo “semplice”, gioiosa. Un giorno un collega più anziano, suo collega all’università, descrisse la fede come un fardello talmente greve da portare nella nostra epoca, che forse chi non credeva avrebbe potuto trovare più facilmente la salvezza di chi aveva fede. L’idea di fondo era che la fede fosse per pochi, «quasi una forma di punizione», come se «La non verità, il restare lontani dalla verità, [fosse, ndr] per l'uomo meglio della verità». Bene, a questo collega risponderà anni dopo sempre nel suo L’elogio della coscienza: «La verità sull'uomo e su Dio è davvero così triste e così pesante, o invece la verità non consiste proprio nel superamento di un tale legalismo? Essa non consiste anzi nella libertà?».
Se c’è una cosa che Benedetto XVI ha saputo preservare fino alla fine è la virtù dell’esempio, della testimonianza, al cuore del discorso cattolico. Sarebbe imperdonabile, dunque, ricordare un Santo, come lo ha definito Papa Francesco, senza parlare di sé, di quanto si sappia ora fare a partire da quell’esempio. E chiunque immagini Benedetto XVI come un occultatore, un censore, un inquisitore, si sbaglia, perché mai da nulla è stato più lontano Joseph Ratzinger, che dal voler reprimere la Verità.