I dodici in gara per lo Strega regalano piccole gioie. Ferrovie del Messico (Laurana 2022), la cui fortuna editoriale se la possono equamente dividere l’autore, Gian Mario Griffi e l’editor Giulio Mozzi, e Il Continente bianco (Bollati Boringhieri 2022) di Andrea Tarabbia, stupiscono per non essere stati esclusi. Complessi e raffinati, di stampo fortemente autoriale, il primo con il peso del numero di pagine da romanzo monumentale, il secondo elegante, profondamente colto ma senza che si lasci sculettare la propria cultura. Sono due libri a se stanti nell’albero morente dello Strega 2023 che, speriamo, non verrà sfrondato proprio di questi titoli eccellenti. Qualche esclusione che fa pensare: Verde Eldorado (Nutrimenti 2022) di Adriàn Bravi, un libro che dimostra una totale sicurezza stilistica del tutto funzionale alla trama (per fortuna, di tanto in tanto, qualcuno si ricorda che le storie, in un romanzo, contano). E Il Duca (Einaudi 2022) di Matteo Melchiorre, un romanzo che a dirsi italiano (sembra tedesco, se i tedeschi avessero conquistato l’Italia negli anni Quaranta) fa fatica, tanto è completo, pieno, cogente e, per questo, inattuale. Nella rosa dei 12, invece, troviamo un paio di biografie, la Joyce Lussu di Silvia Ballestra e l’Antoine de Saint-Exupéry di Romana Petri, scrittrici che sanno fare ricerca e rispettare la materia prima del loro racconto. Ci sono anche due libri sulle guerre, che sembrano monete per il traghettatore del politicamente corretto, così da superare l’ondata di polemiche con libri di respiro civile. A incuriosire, però, è la triade magica dei rapporti madre-figlia, o quasi. Storie al femminile per motivi reali, al di là delle interpretazioni. Le protagoniste sono donne, così come le autrici.
Maria Grazia Calandrone licenzia l’ennesimo romanzo sulla madre, Dove non mi hai portata (Einaudi 2022), consapevole di quanto sia importante seguire la scia fortunata quando si presenta in cielo. Lei, che è poetessa consolidata, e la testa per aria l’avrà avuta almeno qualche volta, ha visto la linea bianca nel il cielo terso del successo attraverso la prosa e l’ha seguita. “Il mestiere di scrivere, ho incontrato”, scimmiottando un verso di Montale. Maria Grazia Calandrone riesce nel tentativo di chiudersi nel ritmo mercenario di chi sa scrivere sempre. Scuole di scrittura, libri di poesia, interviste e interventi radiofonici, apparizioni in TV, recensioni sui giornali. Totalmente piena, quanto dovrebbe riempire una scrittura che diventa vitale. Tuttavia, di questa “necessità” non se ne avverte neanche il sentore. Di necessario, nel nuovo libro, non c’è nulla. La ricerca attraverso la cronaca (che dovrebbe puntare a ricostruire almeno alcuni aspetti dell’epoca) è macchiettistica e la commistione tra letteratura e storia è il piatto di penne sciape preparate tre ore prima, che iniziano a incollarsi creando doppie canne mozze per l’esercito della stitichezza.
Seguendo un’altra via, altrettanto sfortunata, Ada d’Adamo, con il suo Come d’aria (Elliot 2023), propone un libro adolescenziale nella scrittura, il cui tema si innesta senza troppo stupire nel filone dei romanzi che parlano di fragilità e di corpi, in questa sorta di revanchismo fenomenologico alla francese (ma senza fronzoli nel caso di Come d’aria) che cattura tutti e campeggia tra le letture estive nel biennio delle superiori. Ovviamente con destinazione politica. Poi il terzo, il più riuscito, di Carmen Verde, Una minima infelicità (Neri Pozza 2022), che tra l’altro ha una delle copertine più belle. Qui torna in gioco il conflitto con le forme, tipico di quegli strappi familiari tra generazioni che non sanno capirsi (quella che fece il Sessantotto, per esempio, e quella precedente).
A perplimere è l’incapacità della giuria di scegliere uno solo di questi tre romanzi, preferendo piuttosto sacrificare la varietà in nome di una selezione che di vario ha poco (tranne la triviale varietà dovuta al fatto che i 12 libri non sono scritti da un’unica persona). Anche togliendo di mezzo romanzi curiosi, migliori di molti di questi, come nel caso de Il mulino di Lebniz (Neri Pozza 2022) di Paolo Mazzarello, si è optato per una tavola di apostoli ossequiosi, tranne rarissimi Giuda (Griffi e Tarabbia). Temi che risuonano nella stanza del politicamente corretto, tra fragilità e maternità, tra contrasto generazionale e la femminilità tumulata dalle imposizioni (borghesi, sociali, quello che sono). Mai che si premiasse un bel giallo! Perché non tutto il mercato è uguale per i “nostri cari giurati”. Perché questi temi danno all’offerta una spolverata di intellettualismo. Tanto che il merito di questi romanzi, si dirà, sarà di aver saputo affrontare temi scottanti (l’abbandono, il rapporto madre-figlia, la malattia) con – di volta in volta – delicatezza, forza, chiarezza, visione e così via. Mentre il povero lettore si aspetta ancora di veder vincere, prima o poi, un bel libro. Soltanto un bel libro. Niente di più.