«Perché dovrei desiderare di essere Flaubert quando sono Aldo Busi?». Una domanda che contiene in sé già una risposta ma che ad Alba Parietti, e agli autori di una puntata di Alballoscuro del 2011, fece sorgere un ulteriore interrogativo: “Che cosa direbbe Flaubert davanti ad una frase del genere?” rivolta ovviamente allo scrittore di fronte a lei: «Be’, si inchinerebbe e direbbe “Chapeau”». Aldo Busi è questo, non un mitomane, come alcuni credono, un egolatra, un uomo senza senso della misura. Ma un lanciatore di coltelli, un acrobata, un illuminista dei nostri giorni con senso del gusto e senza posa alcuna. Lui è, davvero, il Flaubert italiano, ma anche lo Hugo, di cui una volta André Gide ebbe a dire che fu il più grande, «hèlas». Proprio così. Aldo Busi è il romanziere italiano contemporaneo più grande. Mastodontica, la sua opera non è tanto una lezione di scrittura, ma di etica privata (che per sua stessa essenza non può che diventare un monito rivolto al pubblico). La sua stessa vita lo è. Più di ogni altro libro, quel suo primo, temibile, Seminario sulla gioventù (1984), iniziato a 14 anni, è una dichiarazione di poetica e al tempo stesso un breviario di buone pratiche per il giovane che si affaccia al mondo. L’esperienza e l’identità, sono due concetti che in bocca a qualsiasi altro scrittore della sua stessa generazione suonerebbero persino reazionari. In Busi, invece, diventato l’albero maestro che sostiene le folate degli eventi. Nulla appartiene all’opera di Busi che non sia anche la ricerca del sapere, come di un assaporare.
Da qui la sua partecipazione all’Isola dei famosi, ai talk show politici, ai varietà. L’importante era provare, e che a provare fosse Aldo Busi. Appunto, esperienza e identità. Sapere chi si è ed esserlo da cittadini interessati alla res publica, tanto al buoncostume quanto al malcostume, perché tutto ciò che è pubblico conta. C’è chi, in preda a vampate di puritanesimo, si era convinto che Busi fosse solo un provocatore, un uomo buono per i siparietti libertini di una televisione e un’intellighenzia sempre più prone al lassismo. Una sorta di macchietta. Lo credevano – e lo credono – per via delle sue battaglie “poetiche”, ideali, come quella contro la Chiesa. Non un esercizio di ateismo filosofico (molti illuministi erano credenti), ma per affondare le unghie della critica nelle istituzioni considerate nocive per la modernità. Una prova fu la platea di intervistatori, giornalisti, e critici, che lo incalzarono in una puntata del 1996 del Maurizio Costanzo Show, che al tempo presentava il fortunato format Uno contro tutti. In quell’occasione gli chiesero perché prendersela ancora con la Chiesa e lui, come di sua abitudine, non parlò di massimi sistemi, ma di concretezza. Dei quasi 18 anni di papato di Woytila, che per lui distrusse l’eredità umanistica del nostro primo Rinascimento. Lui, che si è sempre definito una persona pulita, retta, un esempio, ha scandalizzato con la trasparenza e il colore. Il poter dire tutto e il dirlo in modo che resti. Questo è Aldo Busi.
Proprio in quell’occasione, tuttavia, fece scandalo un’altra sua uscita che, fraintendimenti o no, mise in difficoltà anche il padrone di casa, Maurizio Costanzo. Parlando della scoperta della sessualità nei giovani e di pedofilia, le sue parole suonarono come un strappo nel molle tessuto del buon senso di quegli anni televisivi. Tanto che oggi si ritrovano pochissimi video di quell’esatto momento. «Un conto è parlare di bambino e di bambina. Sono già due sessualità diverse. Un conto è parlare dei quattro anni, un conto è parlare degli otto anni, un conto è parlare dei tredici anni. E direi che dopo i quattordici la sessualità è umana, non è più minorile né da adulti. Poi vorrei dire anche una cosa, perché su questa c’è davvero una pessima informazione. Si fa il binomio pedofilia e criminalità. Ma da quando in qua la pedofilia è criminalità», la platea in subbuglio. Anche Costanzo prova a fermarlo, ma Busi è, come sempre, un treno: «Lasciami finire. […] Una normale accoglienza della sessualità del bambino e della bambina, sempre con responsabilità da parte dell’adulto, è normale». Parla della sua infanzia, di tutti gli uomini che son andati con lui: «Nessuno mi ha mai fatto del male. […] Avete paura del sesso. Ma se anche un adulto fa una sega a un bambino di tredici anni, ma chi se ne frega, ma dov’è il male sociale di questo. Io ho vissuto tutta l’infanzia con nonni, papà, zii, balie che sollevavano bambini d due tre anni dal bagnetto e poi si infilavano il pisellino in bocca. È una cosa che si faceva normalmente. E i bambini sono cresciuti belli e sani, con una sleppa lunga così».
Sono meno di una parentesi, eppure hanno fatto storia, più di quanto il pubblico abbia, invece, voluto assorbire dei suoi discorsi, per esempio alle feste de Il Fatto quotidiano, quando presentò E baci (2013), un suo libro tra i più recenti, ma che non si può dire in nessun modo minore. Soprattutto perché si tratta di un saggio di un romanziere, quindi un saggio non classificabile, per questo grandissimo. Una raccolta di e-mail, di sms, che inneggiano al cambiamento, alla coscienza politica, all'impegno civile. Inizia così: «Amo spassionatamente le rivoluzioni, francese innanzitutto e poi russa, e tutte le primavere arabe hanno il mio appoggio incondizionato: adoro le rivoluzioni degli altri, per l’appunto, tanto più ammirevoli quanto più lontane. La catarsi politica e civile è un’araba fenice che rinasce sempre più putrida di prima. E a sessantacinque anni solo gli impiegati di concetto sono apocalittici da apocalisse dura e pura: ne diffondono il timbro argentino tra le masse di teste calde riunite nelle loro bocciofile di riferimento e invocano squartamenti a catena sulla pubblica piazza, me è un’eco del cartellino timbrato da una vita e si sente solo una volta che sono in pensione». Di che rivoluzione parla, se non, prima di tutto, di una rivoluzione di idee? Questo ha fatto Busi per tutta la sua vita.
In Cazzi e canguri (pochissimi i canguri) (1992), la rivoluzione passa, silenziosa, nei cataloghi di amori disinnescati sul nascere, di discorsi intorno alla persuasione delle bellezza, del desiderio, dell'eros. Un vortice che suona autobiografico perché autentico, ma che di autobiografico non ha altro che lo stile. Uno stile di scrittura che appartiene ad Aldo Busi, a lui solo. Una serie di coordinate dai suoni orchestrali, una sinfonia a favore di ciò che non si era mai scritto prima, in nessun modo. Come se Aldo Busi fosse Boccaccio, se Boccaccio avesse letto Oscar Wilde. E proprio Busi, tra l'altro, vincerà il premio Boccaccio per la sua riscrittura del Decamerone (2013). Il perché di una scelta del genere è presto detto. Aldo Busi stesso sa che le grandi opere devono pungolare il contemporaneo, come una forchetta alla schiena, Essere nemici e amici del presente, come il pirata che ti spinge con la punta di una spada in acqua, e allo stesso tempo di rende consapevole del pericolo. Che poi è quanto Busi fa con le sue opere. Nella sua doppia autobiografia "non autorizzata", Vacche amiche e L'altra mammella delle vacche amiche, lo scrittore bresciano si fa monumento del presente e per il presente, grazie non solo a una scrittura impeccabile, ma a una storia vorticosa, mai esausta. Egli è lo scrittore del nostro tempo e non gli appartiene. Non tanto perché inattuale, come molti vorrebbero dei grandi autori, ma perché gaio, dotato di una leggerezza pessima per i nostri tempi. Una leggerezza che è satira ma senza ironizzare. Perché di Aldo Busi si può dire anche questo. Lui, che scruta attentamente i costumi degli italiani, ama la Repubblica, ma senza patriottismo e senza smanie destrorse. Come uomo sapiente, un "senatore" fuori dai palazzi di questo, avrebbe detto Verlaine, «impero alla fine della decadenza».
È difficile sovrastimare il peso culturale del più importante scrittore italiano vivente. Di uno che non ha fatto scuola a nessuno, ma che tutti dovrebbero impegnarsi diventare. Di uno che non riesce più a pubblicare e il suo ultimo romanzo, forse perché chiede troppi soldi (ma non servono a questo gli editori?), forse per disinteresse, potrebbe non vedere mai la luce fin tanto che è vivo. Ma oggi l’autore di Montichiari, che leggeva Carroll con le orecchie da Coniglio su Rai3, compie 75 anni e ha già il profumo del classico. Di un classico che si ostina a non voler invecchiare, a cui dovremmo essere molto più riconoscenti: «E pensare che per essere compiutamente me a me bastava l’unica che avevo, una vita, la vita, la mia unica vita e questo unico istante. Ma ho dovuto dividerlo con voi e dividermi per voi, e non vi perdonerò mai, o ingrati, di esservi così grato» (Per un’Apocalisse più svelta, 1999).