Alberto Sordi in città, a Roma, era anche un riferimento topografico immediato. Non mi riferisco alla casa di famiglia in via dei Pettinari, tra Ponte Sisto e Campo de’ Fiori, neppure a quella dove nacque, a Trastevere, oggi non più presente, ricordata ai passanti da una targa posta accanto alla trattoria “Capo de Fero - I rigatoni democratici”, semmai alla sua villa, progettata dall’architetto Clemente Busiri Vici, già residenza di un alto gerarca fascista, tra via Druso e piazza Numa Pompilio, posta all’ingresso dell’Appia Antica e alle Terme di Caracalla.
Accade infatti, erano i tardi anni Ottanta, di avere scorto un manifesto che annunciava un concerto, “Toretta Stile”, nel gergo musicale underground capitolino, come indicazione topografica semplicemente: “Di fronte casa di Alberto Sordi”. Bastava quel cenno affinché pischelle e pischelli comprendessero. Non c’era romano che, scorgendone la residenza, non facesse caso alle persiane sempre accostate, così come agli avvolgibili dell’attichetto che si aggettava subito sopra, con tutti a domandarsi con stupore magico: …chissà se in questo momento Sordi è in casa, e che starà facendo, starà davanti al “piatto unico” che sempre gli prepara la sorella Augusta?
Vent’anni fa, tarda sera, ero in fila nella piazza del Campidoglio in attesa di vederlo composto nella bara, aperta, un rosario tra le mani; una fila interminabile fin davanti la statua di Cola di Rienzo al lato della scalea giù in basso, giunta a rendere omaggio alla memoria cinematografica di uno dei “colonnelli” della cosiddetta commedia all’italiana - generale, di più, maresciallo d’Italia, in verità, per i romani - dove gli altri, i comprimari, erano Gassman, Mastroianni, Manfredi e, sebbene in posizione più defilata, tenente colonnello quest’ultimo, Tognazzi… Ma blocchiamo questo fotogramma, come in un fermoimmagine, in attesa di farvi ritorno.
Ricordo di averlo incontrato in un albergo di Pescara, in occasione del Premio Flaiano: lui in procinto di prendere l’ascensore per raggiungere la stanza, gli occhiali da vista, d’improvviso ricacciato al pianterreno, il tempo di sentirli pronunciare indispettito e sarcastico: “… e che cazzo stamo a fa’?”
Ora che ci penso bene, c’è stata però anche un’altra circostanza che ci ha visti insieme. Il giorno in cui il sindaco del tempo volle nominarlo “vigile onorario”. Per un giorno lui a indirizzare il traffico dalla pedana di piazza Venezia, accolto infine in piazza della Consolazione, dove il comando della Polizia Municipale, ora Roma Capitale, ha la sua storica sede, sotto il Campidoglio, la Rupe Tarpea e Monte Caprino. Gli sto accanto in veste di presentatore cadetto quando gli viene consegnato il casco bianco da “pizzardone”, e, a quel punto, rivolgendomi a Rutelli, primo cittadino, e allo stesso Sordi, non posso fare a meno, ricordando il film omonimo di Luigi Zampa, che sarebbe davvero il caso di consegnargli una giraffa di pelouche destinata ai bambini per la festa della Befana, come quella che De Sica dona alla sua amante nella stessa pellicola, peccato che gli applausi siano lì a coprire le mie parole, lo stesso Sordi ha poca voglia di trattenersi oltre il necessario, un attimo dopo ed è già iniziata la proiezione…
A proposito di quell’avventura, un amico che recita nello stesso film nei panni del tenente, Riccardo Garrone, raccontava che “Albertone” gli aveva rubato molte battute “perché, agli occhi dell’attore protagonista, il caratterista, non esiste, è invisibile, dunque se l’attore protagonista non vuole che Riccardo dica quella battuta, Riccardo alla fine la battuta non la dice”.
Di Sordi, fra molto altro, si diceva fosse “tirchio”, resta il mistero, insieme all’assenza di figure femminili, coniugali, visibili, evidenti nel corso dell’intera sua pubblica esistenza. Forse non a caso Carlo Verdone raccontava che la sua casa “assomigliava all’abitazione di una cantante lirica molto religiosa, ovunque ritratti di santi e madonne, tele antiche di pregio”. Ancora Verdone si soffermava sulla volta in cui, sempre lì da Sordi, ebbe necessità del bagno, scorgendo sgomento negli occhi del padrone di casa, “... alla fine mi venne data la chiave di un piccolo gabinetto, accanto al lavabo una vecchia saponetta quasi pietrificata, piena di ragnatele”.
Vive una battuta di Nanni Moretti, divenuta celebre tra i detrattori: “E che siamo in un film di Alberto Sordi? Te lo meriti Alberto Sordi!”, intendendo che l’uomo, il professionista fosse la personificazione ideologica del qualunquismo nazionale, venato di sfumature democristiane, curiali; non a caso era assai amico di Giulio Andreotti, che infatti gli concede un cameo ne “Il tassinaro”.
Alla Garbatella, dove anche visse fino al 1941, in via Vettor Fausto, un murales lo mostra nei panni del Marchese del Grillo: nell’eloquio comune nazionale ricorre ancora adesso, ed è solo una delle sue molte eredità verbali, la battuta del nobiluomo: “Io so’ io, e voi non siete un cazzo”.
Pensieri analoghi raggiungono il passante che trovi nello sguardo, all’imbocco dell’Aurelia, la clinica “Pio XI”, set di Villa Celeste, ne “Il medico della mutua”, il suo primario, dottor Guido Tersilli, sembra di risentire perfino la colonna sonora di Piero Piccioni facendo caso alla struttura dell’edificio, brutalismo architettonico anni sessanta, accostata a case generalizie di ordini religiosi, zona mai liberata dalla pantofola feudale vaticana, e per questa ragione detta “Gran Pretagna”. Luoghi assolutamente consustanziali, nel technicolor degli anni di un “boom” economico, al racconto cinematografico che mostra Alberto Sordi a svettare nei titoli di testa dell’Italia al mattino del suo benessere virato arancione.
E ancora sempre lui a interpretare un carosello di personaggi antropologicamente paradigmatici, ormai lontani dal bianco e nero di Nando Mericoni di “Un americano a Roma” di Steno, così come dal giovane scout di “Mamma mia che impressione”, film d’esordio come protagonista, quando i produttori non ne volevano il nome sui manifesti di lancio, ritenendolo insostenibile, una maschera detestabile. Che abbaglio.
Perfino nei suoi film tardi, il Sordi declinante, “Nestore, l’ultima corsa” del 1994, racconta un amico, “… c’è sempre una battuta meravigliosa da salvare”. Esempio: “… tra la vita e la morte nun ce sta ’na via de mezzo”.
Ma avevo interrotto in un fermoimmagine il ricordo delle persone in fila davanti alla camera ardente in Campidoglio, ecco, sì, adesso ci sono: le sue spoglie composte nella bara, il collo contratto del cadavere, la folla in silenzio, o forse un brusio che solleva l’omaggio a una memoria condivisa, un festone di storia cinematografica e del costume d’Italia che si srotola tra “I vitelloni”, dunque “… lavoratori?” cui seguiva una pernacchia e il gesto dell’ombrello rivolto agli operai intenti a riparare il manto stradale, e, metti, l’Oreste Jacovacci de “La grande guerra”, e il principe d’aristocrazia papalina, assai sboccato, Giovan Maria Catalan Belmonte davanti al “malconcio” ne “I nuovi mostri”. Fino all’ultimo lavoro accanto a Valeria Marini, “Incontri proibiti”, ed era il 1998, un fiasco al botteghino, così Sordi scelse di riproporlo, nel 2002, con altro titolo, “Sposami papà”, ormai troppo tardi.
Chissà dov’è adesso la foto che mi vede accanto a lui, in piedi sui gradoni della chiesa di Santa Maria della Consolazione. Lì Sordi viene incoronato con il casco di “pizzardone”. Mi ripenso quando, bambino, ero soltanto un “suo” spettatore, mi torna in mente, capolavoro di Dino Risi, “Una vita difficile”, 1961: Sordi, la camicia fuori dai calzoni, la giacca sottobraccio, che aspetta il passaggio delle vetture per colpirle con gli sputi, prendendo la rincorsa, misurando la traiettoria, sputando pure sui pullman, in sottofondo “Ciao, ciao, bambina” di Modugno, così in Versilia, Alberto Sordi che, rivolto alle auto dei turisti, grida: “Che venite a fare qui? Non visitate l’Italia, qui è tutto uno schifo!”
Mi accorgo solo adesso che, proprio oggi, sono trascorsi vent’anni da quando non c’è più.