La storia è più o meno questa. Roald Dahl non sarebbe abbastanza politicamente corretto per chi non lo legge. Sì, perché sembra difficile pensare che l’operazione di manomissione dell’intera opera di uno dei più importanti scrittori di formazione del Novecento, sia stata pensata da chi Roald Dahl lo legge. Da chi ha, per dire, letto La fabbrica di cioccolato o Le streghe. La storia è più o meno questa. Gente totalmente disinteressata alla cultura e più incline agli applausi del mercato (che crede di svoltare a sinistra, ma in realtà torna solo indietro) vuole correggere, editare e, soprattutto riscrivere dei classici. No, non è un’esagerazione. Sembra che l’edizione in lingua inglese non subirà solo dei ritocchi, ma verrà inquinata da frasi uscite dalla mente (brillante?) dei nuovi curatori, o chi per loro. Frasi non presenti nel testo originale. Per intenderci, non troverete più “grasso”, bensì “enorme”. Non troverete più “brutta e bestiale” per la signora Twits, del piccolo capolavoro Gli sporcelli, ma solo “bestiale”. Altrimenti è body shaming?
Le motivazioni fornite dalla Roald Dahl Story Company non sembrano molto convincenti: l’idea è che per continuare a rendere apprezzabili le storie di uno scrittore morto circa trent’anni fa, ci sia bisogno di rivederne il linguaggio. Un po’ come dire che per apprezzare Dante oggi, si debba sciacquarlo nell’Arno dell’analfabetismo di ritorno, onde evitare di mettere davanti ai ragazzi un capolavoro che per parlare di ebrei parla di “giudei”, per parlare di omosessuali parla di “sodomiti”. Ma il bello ancora deve arrivare. Ne Le streghe, le megere sono pelate sotto la parrucca. Bene, subito dopo la descrizione, si può leggere questo: «Ci sono molte altre ragioni per cui le donne potrebbero indossare parrucche e non c'è certamente niente di sbagliato in questo». Sembra che, più che rinnovare il linguaggio, gli eredi e la Roald Dahl Story Company non vogliano fare innervosire Will Smith e sua moglie, che soffre di alopecia. D’altronde lo diceva anche Gigi Proietti: “Ar cavaliere nero non je devi cacà er cazzo”.
Il problema è più profondo di quanto si possa credere. Chi ha paura delle parole, ha paura dei concetti. E chi ha paura dei concetti ha paura di tutto, del collante della nostra società, del momento in cui le emozioni iniziano a essere comprese abbastanza da parlarne, della conoscenza, del dialogo, della democrazia. L’approccio ideologico alla riflessione sulla lingua, sta grattando via tutto ciò che la lingua ha sempre avuto da offrirci. Non vorrei mai che una Roald Dahl Story Company nostrana finisse per caso davanti alla sezione del classici, notasse il Decameron e decidesse di ripulirlo. Non vi rimarrebbe nulla. Le cause di questo atteggiamento non sono però tutte politiche. Il problema è che abbiamo smesso di leggere. Anzi, non sappiamo più leggere. Crediamo che la lettura debba essere sempre formativa, e così la musica o l’arte. Chissà perché non si dice mai una cosa simile della danza. Lei (o lui, per carità) può ballare sul palco leggera, senza il peso di dover insegnare qualcosa a qualcuno (forse ad amare, forse la bellezza, ma certo non la rettitudine morale). Invece da un romanzo pretendiamo tutto. Non solo quello che, di suo, parte con l’offrirci (perché anche il più scalmanato degli scrittori ci lascia pescare dai suoi libri un paio di insegnamenti), ma anche quello che noi vorremmo ci impartisse. Una lingua pulitina, piattezza stilistica, content warning, spiegoni, note nel testo, puntualizzazioni, chiarimenti. Una lettura fatta di assenza di ritmo. Se ci sono due attributi (“brutta e bestiale”, per esempio), ci sarà un motivo, no? O gli eredi di Dahl sono scrittori migliori di Dahl stesso?